Di Filippo Stasi
Diego Flaccadori, sei tornato a Trento per la tua sesta stagione in bianconero, dopo il quinquennio 2014 - 2019 trascorso con Maurizio Buscaglia in panchina. Al tuo ritorno hai trovato coach Molin e un roster stravolto nel comparto stranieri... Trovi sia cambiata anche la vostra culture, rispetto a quella che vi ha contraddistinto negli ultimi anni come una delle squadre più dure e scomode da affrontare? Per prima cosa ci tengo a dire che sono contento di essere tornato a Trento, in un Club che ritengo vada considerato un modello virtuoso da imitare per l’organizzazione che riesce a garantire agli atleti. Il lavoro che svolge la società per permettere a noi giocatori di concentrarci al 100% sul campo è enorme, i problemi extra campo vengono risolti tempestivamente. La premura della società crea i presupposti migliori per farci preparare al meglio ogni singola partita. Non ho trovato mutato il DNA dell’Aquila: il nostro modo di interpretare la pallacanestro penso venga sempre espresso alla perfezione dal nostro motto, We Die Hard. Siamo sempre ‘duri a morire’. Certo, con coach Molin è cambiata parzialmente la filosofia di gioco, bisogna adattarsi alle caratteristiche dei nuovi giocatori d’altronde. Ma la voglia di lottare su ogni pallone è e rimarrà il nostro segno di riconoscimento, ogni giocatore dell’Aquila Basket ha ben impressa questa prerogativa che è alle fondamenta della cultura societaria e della nostra identità di squadra.
Il vecchio da una parte, i nuovi dall’altra. Cinque giocatori statunitensi arrivati da poco in Trentino, tanti giovani italiani, ma la colonna portante dello spogliatoio della Dolomiti Energia rimane capitan Forray. Toto Forray è la dimostrazione vivente e quotidiana del nostro slogan, We Die Hard. È una persona che tiene molto a quello che fa e lo dimostra con la passione, l’intensità che ci mette in ogni azione, su ogni pallone. In allenamento è sempre il giocatore che si risparmia meno di tutti, nonostante non sia più un ragazzino. Dà l’esempio e a noi compagni viene naturale seguirlo, replicarne l’atteggiamento, l’agonismo. Il nuovo nucleo di giocatori americani, d’altro canto, ci sta portando quella dose di freschezza - unita alla voglia di mettersi in luce, affermarsi e divertirsi - che non deve mai mancare ad un gruppo per affrontare una stagione lunga e ricca di impegni, tra Serie A ed Eurocup. Lo stesso discorso vale per ragazzi emergenti come Ladurner, Conti e Mezzanotte. Questo gruppo dispone di tutte le carte in regola per disputare una stagione di alto livello e le due recenti vittorie ottenute contro Cremona e Reggio Emilia ci danno ulteriore fiducia in vista dei prossimi impegni.
La scelta - certamente inusuale, ma stimabile e volenterosa - di cambiare mano di tiro nonostante avessi medie rispettabilissime da 3 punti tirando di mano mancina, con oltre il 35% in cinque stagioni in Serie A - nelle prime quattro uscite di campionato, quelle percentuali sono addirittura raddoppiate (12/17 e 70.6% dall’arco)! Come ci si rende conto di poter tirare meglio con la mano ‘debole’ dopo aver ripetuto per 24 anni lo stesso gesto, per milioni di volte e con efficacia, con quella considerata ‘forte’? È stata un processo per certi versi casuale, ma al contempo naturale. Tutto è partito dalle sensazioni che percepivo nel rilasciare la palla anche più vicino a canestro; mi sono reso conto lentamente di possedere maggiore sensibilità di tocco con la mano destra. Così a Monaco di Baviera, durante il lockdown, ho avuto tempo di provare a lavorare sulla costruzione di una meccanica di tiro con la mano destra. Devo ringraziare Emilio Kovacic, Player Development Coach del Bayern Monaco, per avermi sostenuto in maniera determinante in questa decisione che effettivamente non è usuale, però non è mai troppo tardi per scoprire qualcosa di nuovo su se stessi ed esplorare le proprie potenzialità. In questo avvio di campionato sto tirando davvero bene dalla linea dei 3 punti, è vero, ma un cambiamento così grande richiede un lungo percorso, tuttora incompiuto. Ogni giorno in palestra infatti, durante le sessioni di tiro, cerco di sviluppare sempre più confidenza, sicurezza e fluidità nel gesto tecnico.
Oltre a Kovacic, al Bayern Monaco hai conosciuto coach Andrea Trinchieri e hai fatto parte di una squadra che ha sfiorato le Final Four 2021 di Eurolega. Cosa ti ha lasciato questa esperienza sia a livello personale che professionale? Al Bayern ho vissuto una vera e propria esperienza formativa, specialmente il secondo anno, quando a Monaco è arrivato coach Trinchieri. Andrea mi ha fatto diventare un giocatore più consapevole: sin dal primo giorno di raduno, è stato chiaro nel dirmi che dovevo lavorare sul mio potenziale da playmaker per potermi ritagliare spazio in una pallacanestro tremendamente fisica come quella che caratterizza l’Eurolega, dove devi marcare guardie molto ben strutturate dal punto di vista atletico. Mi sono trovato sin da subito concorde con la sua visione, ho qualità per essere pericoloso cominciando l’azione con la palla in mano. Ho trascorso due stagioni toste in Baviera, ma era preventivabile fosse così; ho lavorato duramente per conquistarmi ogni singolo minuto e alla fine mi sono tolto anche qualche soddisfazione. Una stella che mi ha impressionato particolarmente in Eurolega? Dopo che ci ha segnato 49 punti in faccia nel novembre 2019, non posso negare che Shane Larkin mi sia rimasto impresso nella mente (ride, ndr)… Ma anche Shavon Shields. Sono contento di aver condiviso due stagioni con lui, proprio qui a Trento. Negli ultimi anni Shavon sta confermando quanto sia un giocatore vincente e decisivo, sui due lati del campo, al più alto livello continentale. Per me è delle migliori 3 guardie d’Europa e poterlo ammirare ogni domenica nel nostro campionato è un bel lusso.
Il biennio a Monaco di Baviera ti ha fatto però uscire, leggermente, dal giro della Nazionale. Quanta voglia hai di riconquistare la maglia Azzurra con Trento? L’esperienza in Baviera speravo mi portasse a fare un passo in avanti anche in ottica Nazionale. Il rendimento di molti giocatori italiani si è alzato molto negli ultimi due anni, la concorrenza è agguerrita ed è giusto che sia così, sono tutti stimoli che spingono noi atleti a dare ancora di più. La scelta di tornare a Trento implica per me maggiori responsabilità e minuti in campo. Al Bayern ho trovato consapevolezza, ora sono tornato a Trento per mettere in pratica, con continuità, tutto ciò su cui ho capito di dover lavorare per diventare un giocatore più forte, da Nazionale e - perché no? - da Eurolega. Sono ancora sotto contratto con il Bayern, quindi lo stimolo a tornare con un ruolo maggiormente rilevante a quel livello c’è. Ora tutta la mia concentrazione è però rivolta all’Aquila Trento: questa società mi ha dato e mi sta dando ancora tanto, per cui quel We Die Hard spirit continuerò a metterlo in campo spontaneamente, ogni sera, assieme ai miei compagni.