di Cesare Milanti
Quando possiamo considerarci cresciuti, maturi, adulti? Giuridicamente basta spegnere 18 candeline, ma è risaputo che la sindrome di Peter Pan colpisca spesso anche coloro i quali si trovano da qualche anno nella terza decade della propria vita. E su un campo da basket, quando si diventa maturi? Alessandro Pajola deve aver sentito quest’aggettivo in svariate occasioni nel corso delle ultime annate, quando tifosi, addetti ai lavori e colleghi si sono riferite (e si riferiscono tuttora) al ragazzo coi riccioli in maglia Virtus Bologna. Un percorso, il suo, di quelli atipici, che difficilmente incontri scorrendo le pagine del panorama cestistico continentale.
Partendo dal basso e costruendo la propria strada, mettendo il primo mattone in una serata di tardo febbraio 2016: sconfitta casalinga contro l’Olimpia Milano, i primi secondi in Serie A per quel ragazzo con ancora la 12 sulle spalle e quell’età giuridicamente immatura. Cinque anni e qualche mese dopo, cambia lo scenario ma l’avversaria rimane: è finale Scudetto, la prima nella carriera del 21enne nativo di Ancona. È 4-0, il coronamento di una stagione che ancora non è finita se si considera un’estate azzurra che entrerà negli annali. Ma la parabola rimane, dalle retrovie della panchina a un ruolo in campo che va oltre il necessario. E Alessandro si sente, effettivamente, cresciuto:
“Sicuramente mi sento molto più maturo, a livello di vita. Mi sento cresciuto come ragazzo, come persona, e questo è grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato a farlo. Sicuramente è cambiato tutto l’aspetto cestistico, l’aspetto fisico, l’essere riuscito a lavorare 5 anni con professionisti incredibili in palestra, dentro e fuori dal campo. Questo mi ha aiutato a portarmi a un certo tipo di preparazione per il corpo, con il quale puoi competere anche ad alto livello. È cambiata anche la visione del basket, perché magari a quei tempi lì ancora non lo vivevo come un lavoro: era il mio divertimento, che ho sempre avuto fin da quando ero piccolo. Sono step che fanno parte del percorso di una persona, di un giocatore, che prima o poi, se affrontati tutti nella giusta maniera, ti portano magari a una finale Scudetto”.
Sì, magari ti portano proprio a una finale Scudetto. E magari riesci anche a vincerla, al primo tentativo; con una squadra capace di superare tante avversità, non necessariamente provenienti dall’altra parte del parquet. Un’altalena di successi e insuccessi in campionato e una finale di Eurocup (con annesso biglietto di sola andata verso l’Eurolega) sfumata all’ultimo contro l’Unics Kazan sembravano aver piegato le ambizioni dei bianconeri, che però si sono ritrovati nel migliore dei modi con un colpo di reni ai danni dei meneghini. E nell’annata del ritorno di Marco Belinelli sotto le Torri, di un Milos Teodosic sempre più in versione “arma in uscita dalla panca” e di un pacchetto americani di tutto rispetto, con Kyle Weems in testa per longevità nello spogliatoio, Alessandro Pajola si è preso, ancora, il suo spazio.
“Sono state tutte emozioni straordinarie, perché a parte il fatto dell’essere bellissime in sé e per sé, sono state tutte inaspettate. E quando ti aspetti meno una cosa te la godi ancora di più. C’è stata la delusione dell’Eurocup dopo aver fatto un percorso splendido, ma è mancata la lucidità per arrivare fino in fondo. Poi siamo stati bravi a ritrovare tutte le energie e da lì è stato un susseguirsi di emozioni sempre più belle che porterò sempre con me in tutta la mia carriera. Quello che ci ha portato fino alla vittoria dello Scudetto è stato un percorso durato tutto l’arco di una stagione o più, per chi era già qui da qualche anno. Sia con lo staff del coach che con alcuni compagni di squadra avevamo creato un legame di amicizia in campo e fuori già dalle passate stagioni. Siamo stati bravi ad amalgamarci con quelli che si sono aggiunti nella stagione scorsa. La prima cosa che ha reso il nostro gruppo inossidabile è il fatto che fosse formato da brave persone; nessuno ha mai peccato di presunzione o egoismo: c’è sempre stata l’idea di mettere il gruppo prima di tutto. Siamo stati bravi a capire il ruolo di ciascuno, bisognava che ognuno mettesse il suo per battere una super squadra come Milano. Questo è quello che abbiamo fatto: eseguire il proprio ruolo al meglio delle possibilità per funzionare tutti in maniera perfetta. Noi italiani ci siamo fatti trovare pronti, sapendo quale fosse la nostra funzione e facendolo nel migliore dei modi”.
Appunto, il ritorno di Marco Belinelli. In un anonimo pomeriggio di novembre, con il freddo a bussare sugli spifferi delle finestre, la Virtus Bologna annuncia l’acquisizione delle prestazioni di uno dei cestisti italiani più affermati di sempre, l’unico capace di indossare un anello NBA al dito con i San Antonio Spurs. E magari c’è un ragazzo che ha compiuto da poco 21 anni, che se lo trova all’improvviso in spogliatoio. Un po’ come accaduto un anno prima con un certo Milos Teodosic.
Gente che ammirava dal divano, che fosse per la nottata in Texas o una trasferta del CSKA Mosca in Eurolega. Ma è anche qui che si nota la maturazione di Alessandro Pajola. Non si scompone, li accoglie e cerca di assimilare tutto il possibile nel suo database: è uno dei suoi mantra quotidiani, non può non accadere lo stesso anche e soprattutto con leggende simili al tuo fianco.
“Il rapporto con Beli e Milos lo vivo quotidianamente. Alla fine, ti rendi conto che sono ragazzi come tutti noi, come tutti quelli con cui ho giocato. Sono leggende e fenomeni in campo, ma poi ognuno ha il suo carattere, il suo umorismo e la sua personalità. La cosa più bella è che sono delle bravissime persone: umili, disponibili, normali. Con cui riesci a crearci un legame, un bel rapporto. L’ho vissuta così, senza farmi scioccare dalla cosa. Anche quando è arrivato Beli, con cui ci giocavo solo alla PlayStation qualche anno prima! L’ho presa come se fosse arrivato un compagno di squadra come un altro, un semplice ragazzo di 30 anni che veniva a giocare da noi. Siamo riusciti a crearci tutti insieme un bel rapporto ed è bello così. Quando ho iniziato a giocare a basket l’ho fatto come divertimento. Mio fratello aveva già iniziato, e poi piano piano mi sono appassionato nel vederlo alla sera. In quel periodo lì, dai miei 7 agli 11 anni, si guardava l’Eurolega dei tempi, con i vari Teodosic, Jasikevicius, Papaloukas, Diamantidis, Spanoulis... l’era di grandi playmaker e guardie che hanno dominato quella decade di Eurolega. Sono cresciuto con loro, e poi ho iniziato a trascorrere le notti guardando le partite NBA o giocando alla PlayStation con quei fenomeni. Mi è sempre piaciuto molto Steve Nash”.
Forse è anche grazie alla sua volontà di immedesimarsi in questi campioni se spesso non lo vediamo figurare in alto nei boxscore. La forza di Alessandro Pajola, infatti, è proprio questa: dominare una partita - o cercare di farlo, riuscendoci spesso - senza farsi accecare dalle luci dei riflettori. Con le piccole cose, mettendo il massimo della grinta in difesa e alzando la voce quando serve.
Eppure se la Virtus Bologna è riuscita a riportare in città uno Scudetto che mancava da 20 anni, una buona parte del merito bisogna darla alla miglior prestazione realizzativa in carriera proprio di Alessandro Pajola. Gara 3 del primo turno, lo strappo decisivo per battere Treviso e trovare Brindisi in semifinale. Ne fa 25 con 7 assist e un letale 6/7 dalla lunga distanza. Sorprendendo tutti, ma senza stravolgere il suo approccio alla gara:
“Semplicemente è arrivato come doveva arrivare. Contro Treviso mi sono trovato con più spazio del solito sul perimetro, e grazie alla bravura dei miei compagni di innescarmi nel momento giusto al posto giusto mi sono fatto trovare pronto. Ero molto concentrato sull’obiettivo che ci prefissiamo sempre: vincere di squadra. Lì è capitato così. Io cerco di fare sempre quello che serve di più alla squadra, perché secondo me ognuno deve avere il suo ruolo e fare il suo compito nel migliore dei modi. Io cerco di farlo da quando ero piccolino, perché mi piace giocare, divertirmi e vincere. Il resto non conta niente. Se in una partita devi fare 0 tiri e nell’altra devi farne 15, questo è quello per cui sono pronto. Senza problemi”.
Come anticipato in precedenza, la stagione in cui si è vissuta la prima grande affermazione di Alessandro Pajola a livello nazionale e continentale non è terminata con 4 vittorie consecutive contro la corazzata dell’Olimpia Milano. Con compagni di viaggio come Stefano Tonut e Michele Vitali, tra gli altri, è arrivato un volo Belgrado-Tokyo impronosticabile sotto svariati punti di vista. E quel ragazzo di 21 anni che continua a crescere si trova ai Giochi Olimpici, dopo un Preolimpico in casa della favoritissima Serbia (con Milos Teodosic questa volta da avversario) in cui congela il pubblico del Pionir con due triple e una penetrazione senza paura contro Petrusev. Fino in fondo, per quel pass che grida “Giappone”:
“Una scena che non posso dimenticare è sicuramente l’arrivo al Villaggio Olimpico di Tokyo. Perché eravamo in viaggio da un’eternità e non si arrivava mai: file, controlli, tamponi... anche l’organizzazione maniacale dei giapponesi è stata incredibile. C’è stato l’arrivo in questo pullman: abbiamo fatto il giro del Villaggio ed eri circondato da palazzoni alti 30 e più piani, pieni di bandiere, colori, atleti, persone, ragazzi... di altezze, fisionomie e culture differenti. È stato qualcosa che non dimenticherò mai. Quando abbiamo visto la nostra palazzina con la bandiera dell’Italia è stato veramente un momento molto bello”.
Da una Serbia con mille sliding doors, dall’affrontare Teodosic ai recenti successi sotto la guida di Sasha Djordjevic, ex allenatore proprio di quella Nazionale, si passa al grande ballo. Ci vestiamo eleganti, perché l’Italia del basket manca alla competizione sportiva più importante del pianeta da Atene 2004. È il Gran Gala al termine della stagione, e che stagione. Torna il solito Pajola, quello che colleziona applausi senza racimolare numeri su numeri, e ne risentiamo positivamente contro Germania e Nigeria, dopo aver impensierito anche l’Australia.
Ci ferma la Francia, che poi indosserà al collo un argento reso tale solo dalla presenza di Kevin Durant. Gli Stati Uniti rispettano le aspettative dopo un percorso in cui si sono imposti anche sulla Spagna di Sergio Scariolo, che qualche settimana dopo verrà annunciato come nuovo allenatore della Virtus Bologna. Si prova ad aprire un ciclo, con innesti di spessore che rispondono ai nomi di Mouhammadou Jaiteh, Niccolò Mannion, Kevin Hervey ed Ekpe Udoh. E poi a quelli di Isaïa
Cordinier e Jakarr Sampson, visti i gravissimi infortuni per Udoh e Abass. Dei campioni d’Italia nuovi, tra conferme lucide e arrivi che alzano l’asticella. Con Pajola che rimane, ovviamente, sulla scia di quei grandi giocatori - da Juan Carlos Navarro a Sergio Llull, passando per il Chacho Rodriguez e proprio Sasha Djordjevic - in cabina di regia che hanno giocato sotto la guida del tecnico bresciano:
“L’ultimo è stato sicuramente un periodo non facile, perché siamo stati tartassati da infortuni, acciacchi, problemi. Perdere due ragazzi e giocatori importanti come Abi e Ekpe è stato un colpo molto duro, perché avevamo appena iniziato a creare il gruppo, a conoscerci, a stare bene insieme. Fortunatamente, la società ha aggiunto al nostro gruppo due grandi ragazzi, sia come persone che come giocatori. Anche con loro siamo riusciti ad amalgamarci e conoscerci bene, sia fuori che dentro al campo. Quello che stiamo facendo è mettere il 100% sia in allenamento che in partita, poi i risultati arriveranno quando questo verrà fuori. Con Coach Scariolo sta andando molto bene. È molto bello perché riesce a curare ogni minimo dettaglio a cui io non avevo pensato. Anche in un movimento di gioco che sembra banale, lui riesce a cogliere l’ultima delle sottigliezze a cui io non avrei mai fatto caso. Riesce a fartelo notare, a fartelo capire, per poi farti agire di conseguenza. Mi sta aiutando sotto questo punto di vista, sul playmaking in generale, sullo spingere la transizione, sul far giocare bene i compagni. Questo è ciò che cerco di imparare da lui, dalla sua esperienza e dal talento che ha come allenatore, visto il curriculum di chi ha allenato. Cerco di prendere ciò che posso da lui e da tutto il suo coaching staff”.
Insomma, dalla crescita alla crescita. Se abbiamo potuto osservare (e lo stiamo facendo ancora oggi, per fortuna sua, della Virtus Bologna e di tutto il basket italiano) l’exploit ad alto livello di Alessandro Pajola, il ringraziamento più sentito va dato proprio al numero 6 con il tricolore sul petto, consapevole che, per trasformare quel divertimento da 17enne in una passione che si traduca in lavoro, ci sia bisogno di un’applicazione costante, duratura, costruttiva. Gli ingredienti perfetti nella ricetta dello sviluppo di Pajola, secondo lui, sono proprio questi:
“Sicuramente il lavoro come prima cosa: lavorare duramente e in maniera quotidiana, ogni volta che se ne ha la possibilità. Dedizione: lavorare nella giusta maniera, saper quanto caricare senza mai andare oltre, cercando di fare ciò che è giusto. Ci vuole bravura a prendere ciò che ti circonda, poter riuscire a imparare da tutti coloro che ti circondano: nel bene e nel male, dai giocatori agli allenatori, sia nella vita che nel basket. Riuscire a rubare da ogni persona che ti sta accanto la sua caratteristica migliore o percepire quale sia la sua peggiore e cercare di non farla tua. Arricchirsi personalmente. Grazie a questi ingredienti riesci a mettere un mattoncino sopra l’altro, con la costanza nel lavoro quotidiano che non deve mancare mai. Al futuro non ci penso, penso a quello che farò domani. Anzi, penso a quello che farò oggi. Lavorare quotidianamente senza pensare troppo in avanti penso che sia la chiave per arrivare in là con tutte le armi pronte per affrontare le sfide che ci aspettano. Se pensi troppo in là senza concentrarti sul presente, ci arrivi ma non con tutti gli strumenti per farti trovare pronto. Vivo tutto alla giornata”.
Alessandro Pajola non ci pensa, ma oggi fa 22 anni. Sta crescendo, e la Virtus Bologna con lui. Si può essere maturi anche quando si vuole rincorrere Peter Pan. In difesa, per rubargli il possesso.