Nel giorno del rientro, 941 giorni dopo l’ultima partita giocata (Gara 6 delle Finals 2019 contro i Raptors), di Klay Thompson, previsto per la sfida tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers di questa notte (ore 2.30 su Sky Sport NBA), scopriamo chi sale e chi scende dopo l’ultima settimana di partite NBA.
Chi sale: Philadelphia 76ers – Dallas Mavericks
Philadelphia 76ers: sulle larghissime spalle di Joel Embiid. Se la squadra di Doc Rivers è una delle migliori dell’ultima settimana con 3 vittorie in 7 giorni contro Rockets, Magic e Spurs precedute dai successi contro Nets, Raptors e Wizards per un totale di 6 w consecutive e 7 nelle ultime 10 partite giocate, il merito è quasi esclusivamente del centro camerunese. La terza scelta del draft 2014, dopo aver saltato diverse gare nel mese di novembre a causa del covid-19 che per sua stessa ammissione ha reso estremamente difficile recuperare il ritmo e la forma fisica ottimale, una volta rientrato e superati anche i problemi di inizio anno con la nuova palla Wilson (“La palla è diversa e non mi sento ancora a mio agio. L’anno scorso ero il miglior tiratore dal midrange nella lega: a un certo punto tornerò ad esserlo), è salito tremendamente di colpi tra dicembre e gennaio, diventando uno degli uomini del momento in NBA, addirittura quarto nell’MVP ladder settimanale alle spalle di Giannis Antetokounmpo, Kevin Durant e Nikola Jokic. Non è assolutamente un caso che nelle 6 partite vinte consecutivamente da Philadelphia il lungo sia stato sempre il migliore dei suoi, con un filotto di 31, 31, 31, 34, 36 e 36 punti, conditi dal solito dominio a rimbalzo e da una capacità via via crescente di riconoscere le attenzioni delle difese nei suoi confronti con intelligentissimi assist per i compagni liberi. Quando Embiid segna più di 30 punti, i 76ers hanno in stagione un record di 10 vittorie e 2 sconfitte finora, a riprova della centralità del numero 21 negli schemi di gioco di una squadra che a dispetto dell’assenza di Ben Simmons, caso vicino alla risoluzione con l’approssimarsi della trade deadline, sembra aver trovato un nuovo assetto con rotazioni molto lunghe (in 10 giocano 24 o più minuti a partita) e una leadership che alle spalle del suo uomo migliore viene ripartita a turno tra la nuova point-guard titolare della squadra Tyrese Maxey, uno straordinario Seth Curry alla miglior stagione in carriera finora (percentuali del 51-41-87 dal campo, da tre e dalla lunetta), e un supporting cast che abbina all’esperienza di Tobias Harris e alla difesa di Matisse Thybulle e Danny Green, la voglia di rivalsa di Andre Drummond e quella di farsi finalmente spazio nella lega con fiducia e minuti a disposizione di Georges Niang e Shake Milton. Il mix di tutto questo rende i Sixers una squadra non irresistibile per numeri complessivi (appena 17esimi per defensive rating e 12esimi per offensive rating) ma che pare aver imboccato la via più virtuosa nella costruzione di un roster dove punti e responsabilità vengono equamente distribuiti alle spalle della superstar, in attesa della ciliegina sulla torta che arriverà dal mercato una volta scambiato Simmons. E nel frattempo, il secondo posto dei Brooklyn Nets dista appena 2.5 partite.
Dallas Mavericks: quinti nella Western Conference, 5 vittorie consecutive, 7 nelle ultime 10 e una settimana perfetta con successi contro Thunder e Rockets fanalini di coda a Ovest, ma soprattutto Denver Nuggets e Golden State Warriors. Proprio da quest’ultima partita, vinta per 99-82 nella notte del ritiro della numero 41 di Dirk Nowitzki, è il caso di partire per parlare del nuovo vestito che Jason Kidd, nuovo coach dei texani dopo l’addio di Rick Carlisle, sembra aver cucito su Doncic e compagni. Il minimo di punti stagionale di Steph Curry e soci, rappresentato al meglio proprio dalla pessima serata del numero 30 (5/24 dal campo e 1/9 da tre), non arriva per caso e rende meriti a una difesa che rispetto alla scorsa stagione ha totalmente cambiato marcia, passando dalla 20esima della lega alla quinta migliore attuale per defensive rating (107.4 punti subiti su 100 possessi). Allo stesso tempo, i Mavs sono ancora alla ricerca del loro miglior assetto in attacco (sceso dal nono migliore al 17esimo in NBA) anche a causa delle defezioni causa covid-19 che ne hanno fatto una delle franchigie più colpite in assoluto con addirittura 24 uomini utilizzati da inizio anno e le stelle Doncic e Porzingis in campo per 24 e 26 partite su 39. Il dover continuamente reinventare e ridistribuire i tiri in queste difficoltà ha tuttavia fatto emergere sera dopo sera leader diversi per la squadra di Kidd, che oggi può contare sul terzetto composto dal sempre più affidabile Jalen Brunson (16.0 punti e 5.6 rimbalzi sempre in uscita dalla panchina), Dorian Finney-Smith (10.5 punti e 4.8 rimbalzi) e Tim Hardaway Jr (14.7 punti a partita anche se con percentuali da migliorare soprattutto dall’arco), che sommati ai recuperi totali dei lunghi Maxi Kleber e Dwight Powell, partner ideali di pick and roll con Doncic, allungano ulteriormente la batteria di giocatori a disposizione in attesa di poter schierare il quintetto al completo e costruire su più partite la rotazione ideale in vista della seconda parte di stagione e dei Playoffs. Un obiettivo minimo se hai un giocatore come Doncic, che nonostante i 25.0 punti, 8.8 assist e 8.0 rimbalzi di media non ha ancora mostrato la sua miglior versione da inizio anno. Un punto in più per temere in prospettiva lo sviluppo totale dei Mavericks, che piano piano risalgono la china.
Chi scende: Sacramento Kings – Boston Celtics
Sacramento Kings: un coach cambiato, l’ennesimo, una striscia di mancate apparizioni ai Playoffs che dura dal 2005-06 e ne fa la squadra da più tempo assente in post-season, e una stagione che, dopo alcuni lampi interessanti, sembra si stia assestando sempre più sui binari della mediocrità. I Sacramento Kings, nonostante un roster che almeno nei primissimi nomi sembrerebbe avere i numeri per ambire a un record più vicino a una posizione Playoffs di quanto non sia adesso (16 vittorie e 25 sconfitte, col subentrato Alvin Gentry a quota 10-14 dopo il 6-11 costato l’esonero a Luke Walton), continuano ad avere i soliti annosi problemi che ne fanno una delle squadre più in difficoltà dell’intera lega. 26esima difesa, 28esimi per punti subiti a partita, 21esimo attacco, e una mancanza di continuità ormai da ricercare proprio nell’approccio globale di una franchigia che pur cambiando interpreti sembra sempre lontana dal punto di svolta. Ne è una prova lampante l’ultima settimana, aperta dalla vittoria per 115-113 contro i Miami Heat grazie al buzzer-beater di Chimezie Metu, e proseguita con 3 cadute rispettivamente contro Los Angeles Lakers, Atlanta Hakws e Denver Nuggets. Tre squadre indubbiamente superiori sulla carta ma contro le quali, ancora prima del punteggio, è stato l’atteggiamento a preoccupare. Un qualcosa di già visto negli anni precedenti e su cui proprio coach Gentry, dopo una sconfitta contro Memphis di fine dicembre, aveva acceso l’ennesimo campanello d’allarme, con parole dure che non hanno tuttavia portato a un’inversione di marcia. Anzi, le voci che giungono dalla California sembrano portare all’ennesima, totale rivoluzione, con pochi o addirittura nessun giocatore realmente incedibile (come prova l’inserimento sia di De’Aaron Fox che di Tyrese Haliburton nelle trattative) e pochissime idee sul core da cui ripartire nuovamente alla ricerca di un assetto vincente. Proprio la convivenza tra l’elettrizzante point-guard classe ’97 e il più razionale esterno arrivato lo scorso anno via-draft è il primo grande equivoco da risolvere per la dirigenza, assieme a una second-unit che cala e di molto la produttività garantita da un quintetto che nonostante la scarsa complementarità tra i due portatori di palla garantisce 5 uomini in doppia cifra. Cercasi panchina quindi, e cercasi leader, con il citato Ben Simmons in casa 76ers che attende la giusta opportunità. E stando ai rumors non è da escludere proprio che il nuovo, ennesimo corso di Sacramento possa ripartire dal mancino ormai fuori squadra a Philadelphia.
Boston Celtics: più del decimo posto nella Eastern Conference, che oggi varrebbe comunque la qualificazione al torneo play-in, e del 19-21 di record leggermente migliorato dopo il 99-75 della notte contro i New York Knicks, quello che preoccupa della squadra allenata da Ime Udoka, che ha preso il posto di Brad Stevens diventato GM della squadra, è l’assenza di miglioramenti nel gioco offensivo. Una difficoltà che parte innanzitutto dai singoli giocatori, singolarmente involuti o comunque arrivati a una fase di stallo della loro crescita, su tutti il talentuosissimo Jayson Tatum croce e delizia tra tiri vincenti e avventate scelte offensive nei secondi finali, ma che vede anche nello scarso assortimento tecnico del roster una causa evidente. La firma a cifre decisamente basse del comunque finora positivo Dennis Schroder non ha infatti dato a questo gruppo il portatore di palla capace di mettere in ritmo non solo Tatum ma anche l’altra superstar della squadra, quel Jaylen Brown in evidente ascesa ma la cui convivenza in campo con il compagno stenta a decollare e non propriamente per un brutto rapporto tra i due, quanto appunto per la mancanza di un facilitatore palla in mano. Un ruolo che anni fa era ricoperto egregiamente da Al Horford – tornato alla base e anzi sorprendente per rendimento, ma lontano dall’ultima versione ammirata in Massachusetts – e che era stato in seguito di Gordon Hayward, lasciato partire in direzione Charlotte Hornets. Il risultato di questa lacuna tecnica è tutto nel numero di isolamenti a cui fa ricorso la squadra di Udoka. 10.1 a partita, alle spalle di Nets e Bucks, spesso stagnanti nelle mani dei due migliori giocatori della squadra e con gli altri compagni fermi in attesa di una soluzione. Difficoltà che emergono ancora di più in partite in equilibrio fino agli ultimi secondi, in cui Boston guardando il clutch (gare decise entro i 5 punti di scarto negli ultimi 5 minuti) ha un pessimo record di 7 vittorie e 16 sconfitte (l’ultima proprio contro San Antonio con tanto di layup sbagliato all’ultimo secondo da Brown) Un problema già emerso a inizio anno e sfociato nelle dure parole di Marcus Smart, uomo-spogliatoio e ormai veterano del gruppo, che aveva posto proprio l’accento sulle scelte offensive compiute dalla squadra negli ultimi minuti di gioco. Una svolta che però manca proprio degli asset necessari per definirsi tale. A dispetto delle difficoltà offensive, il sesto miglior defensive rating della lega rende l’idea di un roster con ottime individualità e un’identità ben definita nella sua metà campo, ma che manca sempre dell’ultimo tassello per salire di livello in quella offensiva. E se praticamente da inizio anno si susseguono voci sulla volontà della dirigenza di cambiare in modo drastico la struttura della squadra, il tempo della rivoluzione sembra ormai arrivato. Nel frattempo, navigare in questi bassifondi dopo l’investitura formale di squadra pronta a raccogliere l’eredità dei Cavs nel post-LeBron James, è un duro colpo da digerire per i tifosi. A Boston serve voltare pagina, in un modo o nell’altro.
Alcuni numeri: le due migliori strisce di vittorie in NBA appartengono oggi a Chicago Bulls (9, e sempre più primi nella Eastern Conference) e Memphis Grizzlies (8, utili per il quarto posto a Ovest ad appena 1.5 partite di distanza dagli Utah Jazz). Per quanto riguarda i singoli giocatori non si può non menzionare l’uomo del momento in NBA ovvero LeBron James: ultime 5 partite, tutte giocate da centro nel nuovo assetto dei Los Angeles Lakers, chiuse a 33.8 punti, 9.8 rimbalzi e 6.4 assist a partita. Il calendario agevole sta aiutando i californiani a risalire, ma senza il nativo di Akron sarebbe stato difficile pensare fino a un mese fa a strisce di successi come quella attuale.