Archiviato in maniera memorabile il ritorno al basket giocato di Klay Thompson dopo l’incoraggiante prestazione contro i Cleveland Cavaliers in cui – seppur a velocità e fluidità evidentemente condizionate da 941 giorni lontano dal parquet – ha mostrato nuovamente tutto il suo repertorio tecnico, è tempo di tuffarsi nelle partite della settimana per scoprire chi sale e chi scende dopo l’ultima settimana NBA.
Chi sale: Charlotte Hornets – Denver Nuggets
Charlotte Hornets: è vero, la recente sconfitta contro gli Orlando Magic non è certo qualcosa di cui vantarsi e spiega anche il perché il progetto Hornets sia tutt’ora in divenire e ben lontano dal definirsi realizzato. Eppure, le 7 vittorie nelle ultime 10 partite ma soprattutto le 3 in fila contro i campioni NBA dei Milwaukee Bucks – per 2 volte – e i Philadelphia 76ers di Joel Embiid versione MVP, due squadre diverse tra loro ma evidentemente ben più quotate sulla carta dei ragazzi di James Borrego, dicono molto degli sprazzi di autentica luminosissima luce che Charlotte emana. Una squadra con pregi e difetti ben precisi, che corre al ritmo del suo geniale direttore d’orchestra LaMelo Ball (primi in NBA per punti in transizione a partita, 24.3), porta ben 6 uomini in doppia-cifra di media e ha ormai consolidato una rotazione a 10 uomini che manca solo della ciliegina sulla torta, ovvero un big-man capace di dare a un team che per ora prova a mascherare correndo le sue lacune strutturali, una dimensione interna che in qualche modo rappresenterebbe una chiusura del cerchio di un roster pieno di talento, tra i più giovani della lega, e con l’asse Ball-Bridges in rampa di lancio. Attorno ai due, non vanno sottovalutate le annate di Gordon Hayward e Terry Rozier oltre ai 16.6 punti di media portati alla causa da Kelly Oubre Jr. Il “Process” in salsa Hornets è meno pubblicizzato e rumoroso di tanti altri, ma con i tasselli giusti al posto giusto la franchigia che è anche di Michael Jordan può sperare di diventare grande prima del previsto. Nel frattempo, l’obiettivo a medio termine può e deve essere agganciare il sesto posto e la qualificazione diretta alla post-season: i Cavs e la stessa Philadelphia sono distanti appena 2.5 partite. E se ci fosse la possibilità già prima di questa deadline di rinforzare la squadra aggiungendo il tassello mancante, non è da escludere che l’accelerata finale al progetto arrivi proprio nelle ultime settimane. Anche perché di giocatori che farebbero al loro caso ce ne sono diversi in uscita…
Denver Nuggets: trascinati dal rookie Bones Hyland (27 punti, 10 rimbalzi e 6 assist) e dalla solita tripla-doppia dell’MVP in carica Nikola Jokic (in doppia cifra di punti, rimbalzi e assist dopo appena 20 minuti e 18 secondi) i Denver Nuggets nella notte hanno colto contro i Los Angeles Lakers la seconda vittoria consecutiva ma soprattutto l’ottava delle ultime 10 partite, striscia positiva che ha riportato saldamente in zona Playoff la squadra di Mike Malone, oggi quinta e con un margine rassicurante di 3 partite proprio sui malcapitati avversari di stanotte, settimi, che oggi passerebbero per il torneo Play-in. Una prima metà di stagione che ha un peso specifico enorme, se si pensa che la franchigia del Colorado sta giocando praticamente da inizio anno senza Jamal Murray (ai box dalla scorsa stagione) e Michael Porter Jr (9 partite prima dell’ennesimo infortunio alla schiena), le due stelle della squadra subito dietro Jokic, e ha quindi dovuto trovare una nuova chimica offensiva con maggiori responsabilità nelle mani di Will Barton, Aaron Gordon e Monte Morris, senza dimenticare la preziosa aggiunta di Jeff Green e l’impatto in uscita dalla panchina di Facundo Campazzo. Di necessità virtù, in un’annata che avrebbe certamente visto la Denver al completo tra le favorite al titolo vista la profondità e l’assortimento di un roster pensato attorno ai polpastrelli di Jokic e che a lui si sta aggrappando oggi, giocando un basket ragionato, a ritmi più sostenibili (24esimo pace dell’intera lega, ovvero numeri di possessi giocati su 48 minuti) e che coinvolge tutti i 5 giocatori in campo. Non è un caso che i Nuggets siano la seconda squadra NBA per tocchi di palla (433.5 a partita, alle spalle della sola Golden State) e la quarta per assist a partita, segno di un attacco poco statico e che sta trovando nei vantaggi creati dal suo miglior giocatore il modo di distribuire al massimo tiri e responsabilità. Per chi aveva serie ambizioni da anello e oggi si lecca le le ferite per le perdite di 2 giocatori che portavano in dote 40 punti di media lo scorso anno, sono numeri importanti. Che testimoniano una volta di più quanto valuable sia l’impatto di Nikola Jokic.
Chi scende: Utah Jazz – Indiana Pacers
Utah Jazz: quinto defensive rating (punti subiti/100 possessi) a quota 107.1 da inizio stagione all’Epifania. Ventinovesimo dal 7 gennaio ad oggi, alle spalle dei soli Houston Rockets, a quota 120.3: sta tutta qui la differenza tra i solidi Utah Jazz di questa prima metà di stagione e la parentesi preoccupante aperta subito dopo la vittoria del 3 gennaio contro i New Orleans Pelicans. Cosa è cambiato nelle ultime sfide della squadra di Salt Lake? Semplice: manca il difensore più condizionante dell’intera lega, Rudy Gobert. Senza le sue lunghe leve e la sua presenza nel pitturato capace di alterare i piani partita di tutte le avversarie della squadra allenata da Quin Snyder, i Jazz si sono scoperti vulnerabili ed estremamente fragili nella loro metà campo, con la sudata vittoria contro Denver a cui sono seguite 4 evitabilissime sconfitte, 3 delle quali contro i Toronto Raptors e i tutt’altro che irresistibili Indiana Pacers e Detroit Pistons. L’ultima, invece, è arrivata davanti ai proprio tifosi contro i Cleveland Cavaliers e come ogni battuta d’arresto roboante che si rispetti (111-91) i giorni successivi hanno ovviamente fatto emergere i primi malcontenti, con le dichiarazioni dello stesso Gobert che ha di fatto ammesso di non vedere i Jazz come contender al momento, e le tantissime voci che nelle ultime ore vedrebbero Donovan Mitchell scontento e desideroso di cambiare aria. La verità è che questo roster sta evidentemente pagando l’assenza del francese 3 volte Difensore dell’Anno e non c’è quindi da preoccuparsi più di tanto per gli attuali risultati, che semmai contribuiranno ulteriormente a rivalutare l’importanza di Gobert nella metà campo difensiva. Eppure, anche al completo questa Utah, che a lungo ha mostrato uno dei giochi più efficienti e godibili della lega, continua a avere delle lacune difensive evidenti sul perimetro e da interventi mirati sul mercato (sacrificando probabilmente uno tra Bojan Bogdanovic e Jordan Clarkson) passeranno le reali ambizioni da titolo di Donovan Mitchell e soci. Che da troppi anni sono tra i migliori in regular season, salvo pagare puntualmente questi vuoti nella metà campo più debole costringendo la loro ancora difensiva a uscire dalla “comfort zone” provando a ostacolare i tiri degli avversari, e così lasciando libera l’area per le penetrazioni. Una coperta corta, che senza il vice-campione olimpico diventa cortissima o quasi inesistente. Il vantaggio in una situazione del genere? I Jazz ora sanno al 100% dove intervenire, ammesso ci fossero ancora dubbi sino a oggi.
Indiana Pacers: arrivati a questo punto non c’è più nulla da attendere e le chance di un cambio di rotta, notte dopo notte, sono sempre più remote. Questi Pacers non rialzano più la testa e nemmeno la scossa emotiva portata dalla firma last-minute grazie alla hardship exception di Lance Stephenson (il cui contratto da 10 giorni è stato recentemente rinnovato per ulteriori 10 giorni e pare poi destinato a essere confermato per tutta la stagione) ha invertito un trend dinanzi al quale la dirigenza sembra aver optato per l’unica alternativa ancora esistente, il famoso tasto rosso del reset. Non si spiegherebbero altrimenti le continue voci che vedono coinvolti in potenziali scambi i migliori giocatori del team, su tutti la coppia di lunghi Myles Turner-Domantas Sabonis e l’esterno Malcolm Brogdon, anche se al momento non sembrano esistere giocatori realmente incedibili e certezze su cui ricostruire nel medio-lungo periodo. Il roster, arrivati a questo punto, sembra mancare di un esterno con punti nelle mani (che tutti speravano potesse essere T.J. Warren, ancora fuori per infortunio) e vive ancora nell’eterna contraddizione del doppio big-man, con tutte le conseguenze a livello di spacing e matchups difensivi che questo comporta. Allo stato, la squadra allenata da Rick Carlisle, finito coi giocatori sul banco degli imputati, è in striscia negativa di 3 partite e ha vinto una sola volta nelle ultime 10 gare, per un 21esimo defensive rating unito al 16esimo miglior attacco della lega. Una mediocrità rispecchiata fedelmente dai numeri unita alla sensazione che sia questione di ore ormai prima di veder partire il rebuilding dei Pacers. Una squadra partita con altissime ambizioni, con un roster lungo e piena di giocatori attesi alla loro breakout season, ormai in totale crisi di identità.