di Filippo Stasi
Ariel Filloy, parafrasando un celebre spot: sarebbe ingeneroso parlare di una Derthona ‘da sogno’, perché vi state dimostrando una solida realtà. Quattro vittorie nelle ultime cinque partite, qualificazione in Coppa Italia raggiunta… E proprio in ottica Final Eight, già lo scorso anno tu e Tyler Cain avete fatto la vostra parte in una squadra underdog come Pesaro, finalista a sorpresa. Credi che ci siano nuovamente le condizioni ideali per sorprendere, anche quest’anno, con la maglia della Bertram?
Il 2022 per noi è iniziato splendidamente. Eravamo preoccupati alla ripresa del campionato, dopo la sosta forzata dai diversi casi Covid che ci hanno colpito nell’ultimo mese. In tanti sono stati in quarantena per 10/15 giorni, quindi un po’ di incertezza e di timore di aver perso brillantezza sinceramente lo nutrivamo. Invece fortunatamente è andato tutto alla grande. Come detto, nelle ultime cinque partite abbiamo perso solo in casa della capolista Milano, che tuttavia abbiamo ‘spaventato’, aggredendoli con intensità, seguendo il piano partita e mettendoli in difficoltà come potevamo finché abbiamo avuto energie da spendere. Ultimamente siamo riusciti a trovare quella continuità di rendimento e risultati che ci era mancata a inizio stagione e che ci ha permesso ora di qualificarci alla Final Eight. La storia della Coppa Italia ci insegna che ogni anno o quasi accade qualcosa di difficilmente pronosticabile e si assiste a partite altamente spettacolari. Da parte nostra, la speranza è che anche l’edizione di Pesaro 2022 rimanga fedele alle ultime e che possa esserci qualche upset... Però non si possono fare calcoli in una competizione del genere: va vissuta giorno per giorno e se riusciremo a vincere il quarto di finale, poi penseremo a provare a fare lo stesso anche in semifinale. Quel che è certo è che daremo tutto, sfruttando la nostra forza: quella di un gruppo ben bilanciato, senza individualità di spicco e capace di trovare risorse diverse di partita in partita.
In quasi 18 anni di carriera tra i professionisti hai girato l’Italia da nord a sud, fermandoti in più piazze... A quali di queste rimani più legato? Cos’ha di speciale Tortona dal tuo punto di vista?
Se dovessi nominare una piazza su tutte che mi è rimasta nel cuore, direi Pistoia. Rimango tutt’oggi molto legato alla città e alla sua gente, ho ancora diversi amici lì conosciuti al di fuori della pallacanestro. Mentre a Tortona sono stato accolto da una società giovane, emergente, che negli ultimi anni sta raccogliendo i primi frutti di un progetto lungimirante che ha sicuramente portato grande entusiasmo in città, sia da parte dei tifosi sia degli addetti ai lavori. La volontà di costruire una nuova Arena e di continuare ad alimentare questo processo di crescita la dice lunga su quanto ambisca a diventare una realtà rilevante e affermata nel panorama del basket italiano. Progetti così ben avviati e curati danno garanzie e stimoli extra anche a noi giocatori, che non possiamo fare altro che trarre beneficio da un’organizzazione così curata, respirando a pieni polmoni l’entusiasmo contagioso che ci pervade e che proviamo a mettere in campo. A partire da coach Ramondino, che ogni settimana lavora duramente per trasmetterci la sua idea di gioco. Proviamo, riproviamo, facciamo adjustments… Finché le cose che vogliamo fare in campo funzionano in maniera soddisfacente.
Il basket è di famiglia: hai trascorso l’infanzia a Còrdoba guardando papà German giocare e proprio come i tuoi tre fratelli hai deciso di ripercorrere le sue orme in Italia, dove ti sei trasferito 20 anni fa, nel pieno dell’adolescenza. Giocare per la Nazionale argentina non è mai stata contemplata da te come opzione?
Non ho mai considerato realmente di vestire i colori dell'Albiceleste. Quando si è presentata l'opportunità di giocare con la Nazionale italiana, non ho avuto molto tempo di pensare al resto. Anche perché non sei tu a scegliere: è la Nazionale che sceglie te, se sei meritevole di una convocazione. Sono stato molto felice di aver vestito Azzurro! L'Italia ha dato e sta continuando a dare tanto alla mia famiglia, per cui è un onore per me aver potuto partecipare a competizioni come l’Europeo del 2017 o il Mondiale del 2019. Tornando alla mia famiglia e agli inizi, mio padre è stato colui che ha ‘asfaltato la strada’ che poi abbiamo percorso io, Demián, Pablo e Juan. Senza il suo esempio e i suoi consigli, forse non sarei riuscito a togliermi soddisfazioni come quelle che ho potuto vivere nel corso della mia carriera da professionista.
Con la Nazionale Italiana non hai partecipato solamente al Mondiale di Cina 2019 e all’Europeo del 2017: eri anche tra i 12 Azzurri che nel 2007 vinsero un bronzo all’Europeo Under 20, sotto la guida tecnica di coach Sacripanti. Cosa ricordi di quell’esperienza? Di gente che poi ha fatto strada ce n’era eccome in quel torneo. Chi ti impressionò di più?
Avevo da poco compiuto 20 anni e di conseguenza ho ricordi di un’esperienza vissuta con la spensieratezza tipica di un giovane che si sta iniziando ad affacciare al basket senior e vive tutto con leggerezza, quasi incoscienza. Quella spedizione Azzurra oltre a me vedeva protagonisti altri futuri pilastri della Nazionale degli ultimi anni, come Datome, Hackett e Aradori. Eravamo forti, arrivammo terzi dietro Serbia e Spagna. I serbi erano troppo più forti delle altre, sembravano già una squadra senior e viaggiavano al ritmo dettato da un ragazzino chiamato Milos Teodosic, non so se vi dice qualcosa questo nome… Tutte le altre selezioni - la nostra compresi, così come quella spagnola - giocavano ancora da giovanili, un basket più acerbo rispetto a quello della Serbia. Tra gli spagnoli c’erano quelle che sono poi diventate - e sono tuttora - bandiere del Real Madrid: Sergio Llull e Rudy Fernandez già si capiva avrebbero fatto strada… Così come Shved della Russia, un talento davvero incredibile. Fu davvero emozionante giocare per la prima volta per l’Italia, ma tornare in Azzurro a 30 anni, dieci anni dopo quell’esperienza con l’Under 20, per giocare un Europeo senior è stato ancora più bello, anche per come sono riuscito a contribuire alla causa.
Dalle tue parole emerge chiaramente l’amore che nutri per l’Italia. Oggi è il 26 gennaio, una data infausta per la pallacanestro mondiale e italiana in particolare, considerato che sono passati due anni esatti dalla tragedia che ha colpito mortalmente Kobe Bryant, sua figlia Gianna e altre sette persone. Te la senti di spendere due parole per una leggenda dello sport che amava sinceramente, come te, il nostro Paese?
Per questioni anagrafiche sono cresciuto con il mito di Michael Jordan, ma Kobe Bryant ha segnato la generazione dopo la mia in maniera simile a MJ. Due anni fa giocavo per la Reyer Venezia e, quando dagli USA giunse quella notizia che nessuno avrebbe mai voluto ricevere, ricordo che arrivai in sala pesi, dove trovai Stefano Tonut letteralmente distrutto dalla tragedia. Mi fece ancora più male vederlo così travolto emotivamente, e al contempo capì appunto quanto valore ha una figura come la sua per i ragazzi più giovani di me. Kobe è indubbiamente una delle icone di questo sport e dello sport in generale. La sua è e rimarrà sempre, purtroppo, una perdita incolmabile.