A poche ore dalle semifinali del torneo NCAA (che hanno visto eliminato il nostro Paolo Banchero, miglior marcatore di Duke con 20 punti e 12 rimbalzi in quella che molto probabilmente sarà la sua ultima partita al College) tuffiamoci nella lega più spettacolare del mondo e analizziamo chi sale e chi scende nella nostra rubrica a una settimana dalla fine della regular season.
Chi sale: Atlanta Hawks - New Orleans Pelicans
Atlanta Hawks: la franchigia della Georgia ha vissuto una stagione, inutile negarlo, al di sotto delle aspettative per una squadra reduce pochi mesi fa dalla Finale di Conference. Gli infortuni a turno dei tanti role players a supporto di Trae Young unita a un Est che si è fatto ulteriormente competitivo e che oggi potrebbe davvero veder trionfare 5-6 squadre diverse non hanno aiutato, ma la sensazione più volte data dal roster di McMillan è quella di un gruppo sicuro dei propri mezzi e spesso consapevolmente in vacanza, in attesa di giocare per obiettivi più ambiziosi. Filosofia rischiosa, se questa mancanza di continuità vuol dire essere risucchiati nelle sabbie mobili del torneo play-in, che gli Hawks giocheranno a questo punto al 100% forti di un ottavo posto troppo distante sia dal sesto seed occupato dai Toronto Raptors (che vale la qualificazione diretta) che dall’undicesimo dei New York Knicks. Se però un’annata da 82 partite può essere vissuta in un continuo saliscendi come fatto da Atlanta, il dover affrontare sostanzialmente in una gara de dentro o fuori l’attuale settima ovvero i Cleveland Cavaliers, con in palio la qualificazione diretta in post-season, richiede attenzione e dedizione diverse. Anche perché alla perdente toccherà, con ogni probabilità, la Brooklyn di Kyrie Irving e Kevin Durant. Un impegno che in partita secca fa paura, ma che Trae Young e soci hanno già dimostrato di poter sostenere nella notte, dove ai 31 punti del primo e ai 55 del secondo gli Hawks hanno risposto giocando di squadra e, con i soliti canestri del loro miglior giocatore Young (che guida l’NBA per punti e assist totali), hanno portato a casa una preziosa W per 122-115, la quarta della settimana e la quinta consecutiva. Niente male per una squadra ben conscia dei suoi pregi (seconda per offensive rating in tutta la lega con 116.3 punti segnati su 100 possessi) ma anche dei suoi difetti strutturali (26esimo defensive rating) e che sa quindi quali punti esasperare del proprio gioco per imporsi anche contro avversari più forti sulla carta. Nella risalita degli Hawks un ruolo fondamentale è quello che sta avendo anche Danilo Gallinari (stanotte migliore della second-unit con 15 punti), impegnato spesso anche in quintetto e reduce dal mese forse migliore della sua stagione con Atlanta, con 12 partite su 14 giocate a marzo chiuse in doppia cifra e prestazioni da 27 e 25 punti contro Pelicans e Warriors. Gli Hawks, se al completo, restano una squadra che vale molto più dell’ottava piazza a Est. Superati i rischi del play-in, non siamo sicuri ci sia la fila per affrontarli su una serie di 7 partite.
New Orleans Pelicans: 3 vittorie di fila, 7 nelle ultime 10, un record che dalla trade deadline dice 13 successi e 11 sconfitte e l’attuale nono posto a Ovest che vuol dire torneo play-in. Il tutto senza mai aver visto in campo il miglior giocatore della squadra e dopo una stagione vissuta quasi sempre nelle retrovie della Western Conference. I New Orleans Pelicans possono essere descritti come una delle rivelazioni della lega da febbraio in poi, grazie anche alle mosse fatte sul mercato. Scelte inizialmente opinabili, ma che stanno pagando non pochi dividendi grazie a un CJ McCollum positivo e da subito inseritosi negli schemi della squadra che in lui ha finalmente trovato un giocatore in grado di creare dal palleggio (dal suo approdo a NOLA i punti sono 26.2 punti con 6.2 assist e 4.6 rimbalzi, con efficienza spaventosa al tiro) e di aiutare quindi un attacco troppe volte apparso statico e senza vie di fuga contro difese in grado di alzare la pressione sugli esterni. Proprio gli ultimi 7 giorni sono stati emblematici nell’annata di NOLA, che con di fronte per ben due volti i diretti rivali dei Los Angeles Lakers hanno portato a casa due vittorie consecutive, una in casa e una alla crypto.com Arena, che valgono tantissimo in ottica scontri diretti laddove le squadre dovessero finire con un record alla pari. Nel mezzo, CJ e compagni non hanno tremato contro i Portland Trail Blazers. E per un team che ha fatto a meno non solo di Zion Williamson per tutta la stagione, ma anche per un lungo lasso di tempo di Brandon Ingram, già essere in orbita play-in è un successo enorme. Merito anche delle scelte estive, con un draft che su tutti ha visto arrivare a New Orleans Herbert Jones, difensore di altissimo livello cresciuto anche in attacco nel corso della stagione, e Jose Alvarado, firmato ad agosto da undrafted e divenuto in fretta anima e energia di tutto il roster grazie alle sue giocate di astuzia e puro agonismo. NOLA non è la squadra con più talento, non è appariscente come altre, ma si è presa dei rischi per uscire da un preoccupante immobilismo che oggi sembrano abbondantemente ripagati. Playoff o meno, Williamson troverà tutto meno che macerie al suo ritorno. E se a questo gruppo unisci un giocatore capace di fare quanto Zion ha mostrato in campo, il progetto Pelicans è destinato a regalare gioie ai tifosi.
Chi scende: Los Angeles Lakers - Utah Jazz
Los Angeles Lakers: crollo verticale. Mancano 5 partite alla fine della stagione regolare, contro avversari (tranne i Thunder) tutt’altro che abbordabili e in piena lotta per il piazzamento playoffs, e attualmente i Lakers, al di là dei proclami della coppia LeBron James-Anthony Davis (tornato proprio in settimana ma evidentemente lontano dalla sua miglior versione), sarebbero fuori persino dal torneo play-in. Un disastro in parte annunciato già in estate, con mosse tanto rumorose quanto disfunzionali, che hanno regalato a coach Frank Vogel (non esente da colpe e ormai in rotta con tutto l’ambiente) un roster privo di tiratori, privo di difensori perimetrali, e privo di giocatori in grado di inventare dal palleggio quando la palla non orbita alla stazione-James, ancora oggi per distacco baricentro del team. Male, malissimo se si pensa che la scellerata trade per Russell Westbrook doveva in qualche modo regalare al nativo di Akron proprio quel riposo necessario durante la stagione regolare per affrontare nel migliore dei modi la post-season ed evitare di capitolare sul più bello come già avvenuto un anno fa contro i Phoenix Suns. Dopo tutte le speranze riposte in estate però il 2021-22 dei gialloviola si è presto trasformato in un incubo, tra infortuni in successione e una chimica di squadra da subito sembrata deficitaria, con lo scarso feeling tra Westbrook e lo staff tecnico e la complicatissima presenza sul campo contemporanea del numero 0 e proprio di LeBron, spesso usato anche da 5 quando Anthony Davis è incappato nell’ennesimo lungo infortunio stagionale. Nel mezzo, timide note positive sono arrivate dai vari giocatori di contorno, pochi a dire il vero se escludiamo i tanti deludenti veterani, ma comunque non sufficienti a salvare la deriva che nemmeno le gare da 40 e 50 punti di James hanno fermato. E tra un attacco fermo, una difesa inadeguata (pesa tantissimo la rinuncia ad Alex Caruso a favore di Horton Tucker, altra enorme delusione di quest’anno) e un ambiente ormai rassegnato al trend fallimentare intrapreso dal team, le ultime 5 gare della stagione potrebbero sì regalare un insperato piazzamento play-in, ma immaginare di veder risolti da un giorno all’altro i problemi strutturali di un roster mal assortito è davvero impossibile. 2 vittorie nelle ultime 11 partite, d’altronde, sono già di per se il segnale più negativo possibile per una squadra che proprio nel momento più delicato dell’anno si è sciolta come neve al sole.
Utah Jazz: a Salt Lake City, è brutto dirlo dal momento che la squadra è stata a lungo vicina alle primissime posizioni della Western Conference e ancora oggi, nonostante 6 sconfitte nelle ultime 7 partite, è in controllo di un prezioso seed Playoffs senza dover passare per gli spareggi play-in, e infine detiene con merito il dato del miglior offensive rating dell’anno con 113.4 punti segnati su 100 possessi, tira una pessima aria. Dal campo facciamo un rapidissimo salto sui social, dove Rudy Gobert, con Mitchell il miglior giocatore della squadra, ha postato per due notti consecutive una foto che lo ritrae a braccia alzate, a pochi centimetri dal ferro, in attesa di un passaggio che nonostante il vantaggio fisico contro il diretto avversario non arriverà mai. Una piccolissima istantanea che vede tuttavia coinvolte proprio le due star di un roster che, dopo diversi anni ad alto livello ma mai sufficienti a fare l’ultimo e definitivo salto di qualità, oggi sembra pronto a vivere una profonda ricostruzione che può iniziare proprio dal dover compiere una scelta tra il numero 45 e il numero 27, ai ferri corti già nella scorsa estate e solo apparentemente riavvicinatisi durante l’anno. E se il tuo asse portante vive con così tanta difficoltà una convivenza tecnica e tattica che proprio intorno a lui dovrebbe far vivere il tanto stimato sistema Jazz che Quinn Snyder ha edificato negli anni, si è forse arrivati al punto di non ritorno. Il tanto atteso difensore perimetrale non è arrivato a febbraio, l’infortunio di Ingles poi scambiato ha privato lo spogliatoio di un collante e riferimento fondamentale e così l’entusiasmo di inizio anno di Utah si è lentamente spento. E, al contempo, sono riemerse le voci di un malcontento di Mitchell che starebbe pensando al clamoroso addio in estate. Insomma, una situazione contraddittoria se si pensa appunto al miglior attacco NBA, a una squadra da anni vive stabilmente al vertice dell’Ovest, e a un roster profondo che spesso ha mostrato il gioco più corale della lega. Potrebbe sembrare solo un tirare il fiato prima della post-season, ma la discesa dei Jazz ha radici molto più profonde e che tra pochi mesi vedranno avviare una quasi certa rivoluzione.