Di Edoardo Pollero
Il sogno di ogni giocatore universitario è quello di disputare il prestigioso torneo nazionale dedicato ai sessantaquattro migliori college degli Stati Uniti d'America. Quando hai sulle spalle la nomea di predestinato – one and done – l'obiettivo non è solo giocarlo, ma arrivare a tagliare la retina ed essere premiati Most Outstanding Player, un encomio che nelle ultime dieci stagioni però non ha portato granché fortuna al vincitore. Il torneo di Paolo Banchero è stato all'altezza delle aspettative: sebbene la sua Duke abbia dovuto cedere il passo alla rivale North Carolina nella Final Four, il numero 5 dei Blue Devils ha fatto il suo ingresso nella manifestazione come una tra le papabili prime quattro scelte del prossimo Draft NBA e ne è uscito da potenziale prima scelta assoluta. La sconfitta nell'ultima gara di regular season, sempre per mano di North Carolina e la disfatta in finale nel torneo di Conference contro la non irresistibile Virginia Tech, avevano alzato un'ondata di scetticismo sulla reale concretezza dell'italoamericano nelle partite importanti; nonostante ciò, la lega americana è in procinto di abbracciare un nuovo prototipo di giocatore, le cui indubbie doti offensive e da passatore non sono certo rimaste inosservate, lasciando un solo interrogativo riguardante la sua fase difensiva: troppo presto per definirla NBA style, non ancora troppo tardi per renderla un altro punto di forza del suo gioco.
Una volta scelta la strada per Durham – città in cui ha sede Duke University – si accettano anche le conseguenze legate a questa decisione: le antipatie, la voglia di veder fallire un progetto che nella pallacanestro collegiale ha una risonanza enorme, la troppa esposizione mediatica portano spesso i detrattori a definirti prematuramente un bust (giocatore le cui aspettative non vengono ripagate con l'ingresso in NBA) e dunque a soccombere alla pressione che segue questi tre fattori appena elencati. I Blue Devils, pur non essendo la squadra più vincente nella storia del torneo NCAA, sono di gran lunga quelli da guardare più con attenzione parlando di future stelle NBA, anche se la politica degli one and done da cui si è lasciato trascinare coach K negli ultimi anni ha regalato sì degli All-Star alla lega americana, ma ben pochi successi all'ateneo; non ultimo sarà Paolo Banchero, ala forte originaria di Seattle, le cui prodezze sul parquet sono sempre analizzate al microscopio non solo dagli osservatori delle franchigie che un giorno gli offriranno un contratto, ma anche da chi spera nell'arrivo di un uragano in grado di sconvolgere il basket FIBA riportando la nazionale azzurra al successo. Nel paese a stelle e strisce però ti preparano ad avere i riflettori sempre puntati contro, a 19 anni ti considerano maturo abbastanza per sopportare questo peso e, se non avessi le spalle abbastanza larghe per incassare i colpi, la successiva ondata di talenti in uscita dalle migliori università americane sarà pronta a prendere il tuo posto.
La scelta di Banchero di vestire la divisa dei 'diavoli blu' si spiega con la presenza di coach K. Una figura carismatica, Mike Krzyzewski, indubbiamente uno dei migliori recruiter della pallacanestro collegiale – se non il migliore – che sognava probabilmente un finale diverso per la sua personalissima last dance, e che aveva voluto fortemente Paolo Banchero a guidare la squadra nella sua ultima stagione da head coach dei Blue Devils, una cavalcata lunghissima iniziata nella stagione 1980-81. C'era da cancellare in fretta il ricordo della stagione precedente, quando per Duke ci fu addirittura lo smacco di non venire invitata al torneo NCAA, come a coach K (tolto il primo quadriennio “di rodaggio”) era successo solo nel 1995, quando peraltro dovette farsi sostituire per buona parte della stagione da un assistente. E lui, secondo miglior liceale d'America, era il fit perfetto per il gioco promosso dall'ateneo: aprire l'area, fare quanta più transizione possibile, passarsi la palla senza egoismi e condividere le responsabilità in attacco. Paolo, che comunque era la prima opzione offensiva, si è preso in media 13 tiri a partita, uno ogni due minuti e mezzo trascorsi in campo. Nei giorni scorsi, l'italoamericano ha avuto parole al miele per Krzyzewski, dicendo che lo aveva reso un uomo migliore e un giocatore più forte nei mesi trascorsi a Durham; Banchero lo ha definito G.O.A.T. (Greatest Of All Time), un attestato di stima enorme, il quale testimonia – se ce ne fosse bisogno – quanto l'ex capo allenatore degli USA abbia fatto breccia nel cuore di ogni singolo ragazzo allenato e il nostro Paolo, probabilmente, sarà il suo ultimo grande successo.
Inserito nel miglior quintetto del torneo NCAA – l'unico dei cinque non facente parte delle due squadre arrivate alla finalissima – il classe 2002 ha trascinato i Blue Devils verso la fase finale di New Orleans grazie ad un arsenale di colpi che pochissimi nel panorama cestistico possono permettersi di avere, oltre ad una maturità nell'affrontare le fasi concitate di una partita punto a punto. Due le doppie-doppie registrate nella Big Dance di marzo, rispettivamente nella gara di debutto e in quella che ha fermato i suoi sogni di gloria, di fronte agli oltre 70.000 spettatori seduti al Caesars Superdome; sono 18.8 i punti di media segnati nel torneo (94 totali nelle cinque partite), a cui ha aggiunto 7.6 rimbalzi (38 totali), 3.4 assist (17 totali), 1 recupero e 1.2 stoppate, numeri utili a testimoniare il suo impegno sui ventotto metri, anche se la mera statistica non spiega alla perfezione quanto Paolo fosse determinato ad alzare quel trofeo. Le percentuali – 50% dal campo, 52.6% da tre e 72.7% ai liberi – ci mostrano solo una parte della sua qualità in attacco, l'abilità di un lungo moderno, in grado di saper raccogliere la sfida dei difensori avversari e batterli con triple in transizione, dal palleggio oppure sfruttare il suo strapotere fisico e schiacciare a canestro, oltre ad un sapiente uso del gioco in post e quel movimento in virata che ha dato notevoli mal di testa ai diretti marcatori.