Di Filippo Stasi
Miro Bilan è il nuovo ospite della rubrica ‘5 domande a’. Il centro croato, concittadino della leggenda Drazen Petrovic, ci ha raccontato dal suo punto di vista Il Diavolo di Sebenico dopo aver analizzato con lucidità quelle che sono gli obiettivi e le ambizioni della Dinamo Sassari per la volata finale del campionato.
Hai trascorso la prima metà della stagione con la maglia del Prometey, Club della città di Dnipro, in Ucraina… Da più di un mese sei tornato alla Dinamo Sassari, ma prima di parlare di questo raccontaci: quando hai lasciato Dnipro? E quanto era già grave la situazione lì? Tutta la squadra ha lasciato Dnipro e l’Ucraina il 15 febbraio. Come tutti sanno, la guerra è scoppiata il 24 febbraio, ma da tempo era crescente la tensione nel Paese ed è stato il presidente del Prometey in persona ad allertarci in un primo momento e a prendere in mano la situazione subito dopo. Il 15 di febbraio infatti tutta la squadra si è trasferita in Repubblica Ceca: il programma inizialmente era di restare lì per poche settimane, a svolgere una sorta di training camp presso la città di Nymburk, in attesa che la situazione rientrasse sotto controllo. All’inizio si pensava che dopo qualche settimana saremmo tornati in Ucraina, nessuno si aspettava che la situazione degenerasse al punto tale da far scoppiare una guerra… Eravamo sotto shock ovviamente. Siamo rimasti in Repubblica Ceca per giocare le partite di Basketball Champions League, mentre il campionato ucraino era stato per forza di cose sospeso. L’ultima partita che ho giocato per il Prometey è stata a inizio marzo, contro i rumeni del Cluj. Due giorni dopo quel match, il nostro team manager ci ha convocati per comunicare che la società avrebbe sospeso la stagione sportiva per impegnare le sue risorse economiche nel conflitto. Dunque eravamo liberi di accasarci altrove. Io sono rimasto inizialmente in Repubblica Ceca, avevo la mia famiglia lì con me e nel frattempo il mio agente si è attivato per farmi concludere la stagione altrove. Avevo tre offerte sul tavolo, compresa quella di Sassari, che ho accettato senza pensarci troppo. Sono felice di essere tornato in Italia e in una città nella quale già mi sono trovato molto bene, ma le vicende vissute in quelle settimane mi fanno sentire ancora unito anche al gruppo squadra del Prometey. Ognuno di noi ora è andato a giocare all’estero, nessuno di noi è ancora tornato in Ucraina. Abbiamo una chat che usiamo per sentirci costantemente come se fossimo ancora parte della stessa squadra e della stessa famiglia.
Oggi il tuo presente professionale è alla Dinamo Sassari. Sei tornato in Sardegna dopo quasi un anno, ma sembra che non te ne sia mai andato per l’impatto estremamente positivo che stai avendo in campo, con 15,9 punti e 7,4 rimbalzi di media a gara, tirando con ottime percentuali dal campo… Eppure in casa Banco di Sardegna di cambiamenti ce ne sono stati rispetto alla scorsa stagione: è stato facile reintegrarti nel gruppo squadra e nei nuovi principi di gioco? Chiaramente quando cambia l’allenatore cambia tutto, a partire da come viene strutturato l’allenamento fino ad arrivare al modo di interpretare il piano partita. Inoltre Sassari ha cambiato il playmaker titolare, l’anno scorso c’era Marco Spissu, quest’anno Gerald Robinson che lo sta sostituendo molto bene, ma è evidente che i due abbiano caratteristiche differenti. Coach e playmaker hanno in mano le chiavi della squadra, per cui anche se circa l’80% del roster è rimasto lo stesso, alcune dinamiche del nostro gioco sono cambiate non poco rispetto all’anno scorso. Per me non è stato semplice perché ho svolto solo un paio di allenamenti con la squadra prima di essere stato lanciato in campo. Mi spiace perché le prime due partite dal mio ritorno le abbiamo perse, nonostante fossero alla nostra portata… Con qualche giorno in più di tempo sono convinto che avremmo potuto portarle a casa e oggi la nostra situazione in classifica sarebbe diversa, ma è andata così. Bisogna guardare alle prossime.
Guardando avanti, restano tre partite al Banco di Sardegna Sassari per concludere la stagione regolare: Cremona e Virtus Bologna in casa, infine la trasferta a Varese. Siete molto vicini alla qualificazione ai playoff, sicuramente uno degli obiettivi societari ad inizio stagione, e recentemente hai dichiarato che questo Club ama essere la squadra underdog. Vi candidate dunque ad essere la mina vagante in postseason? Francamente sarà dura per ogni squadra che non si chiami Olimpia Milano o Virtus Bologna fare tanta strada ai playoff! Cerco di essere abbastanza realista: già l’anno scorso il divario tra queste due squadre e le altre è stato importante, perché Milano è una delle migliori squadre di Eurolega e la Virtus ha come obiettivo raggiungerla l’anno prossimo. È vero, neanche un mese fa al PalaSerradimigni abbiamo sconfitto in volata l’A|X Armani Exchange, ma batterli in una serie al meglio delle 7 partite è praticamente impossibile. Avremmo forse l’1% delle possibilità… Questo ovviamente non ci impedirà di provarci, se ci troveremo ad affrontare loro o la Virtus. Alla fine scendono in campo le due squadre e non i loro budget, ma la profondità e la qualità dei loro roster è impressionante. Per non parlare dei due signori che li allenano, Messina e Scariolo hanno una mentalità da vincenti. Guardando alle altre squadre, Brescia sicuramente ha fatto un campionato straordinario, così come Tortona. Venezia è tornata prepotentemente nelle zone alte della classifica… Saranno certamente dei playoff agguerriti e la Dinamo rientra in quella cerchia di squadre che vogliono sorprendere e giocare il più possibile in postseason per regalare soddisfazioni, emozioni e spettacolo al Club e ai nostri tifosi.
Sei uno degli ultimi pivot old school rimasti nel nostro campionato. Molte squadre preferiscono puntare su centri molto dotati dal punto di vista atletico, ma magari più grezzi a livello tecnico, punto di forza per te. Raccontaci come hai sviluppato le tue abilità in post basso e non solo da quando eri giovane fino ad oggi: quanto talento naturale c’è in proporzione al lavoro quotidiano? E c’è stato qualcuno in particolare che ti ha aiutato ad acquisire movimenti e gesti tecnici di pregio nel corso della tua carriera? C’è tanto lavoro individuale alle spalle, talento non molto. La vera dote naturale è essere alto 213 cm, questo non lo si può certo imparare (ride, ndr). Da ragazzino comunque ero scoordinato e non molto ‘educato’ dal punto di vista tecnico, fidatevi. La tecnica che ho acquisito è frutto dell’allenamento individuale e fortunatamente la società giovanile della mia città natale aveva un programma di formazione davvero ottimo per far sviluppare al meglio il potenziale tecnico dei giovani. Mi presentavo in palestra un’ora prima e al termine dell’allenamento di squadra restavo ancora in campo per fare del lavoro individuale supplementare. Questa non era un’abitudine solo mia, ma anche di tutti gli altri ragazzi cresciuti nel mio Club. L’etica del lavoro è decisiva. Sono stati diversi gli allenatori che mi hanno aiutato a diventare un professionista, ma non voglio citare nessuno in particolare perché ognuno di loro ha dei meriti in egual misura. Posso solo dire che il lungo a cui mi sono sempre ispirato è Tim Duncan, The Big Fundamental.
A proposito della tua città natale, Sebenico. Sei concittadino di una leggenda del basket europeo come Drazen Petrovic, che proprio la stessa estate in cui sei nato, nel 1989, vinse l’Europeo con la Jugoslavia e l’anno seguente il Mondiale. Poi nel 1992 anche un argento olimpico a Barcellona, da stella della neonata Croazia… Prima della tragica scomparsa nel 1993. Essendo cresciuto sin da bambino sulla scia del mito di Drazen, nella sua città, puoi dirci quanta influenza ha avuto questo su di te in particolare? È stata enorme. Quando un giocatore così fenomenale, una vera e propria leggenda del basket mondiale nasce nella tua città, la sua influenza la percepisci ovunque. A maggior ragione se si considera che Sebenico conta tra i 35 e i 40mila abitanti, non parliamo certo una metropoli… Quindi di storie, di aneddoti su di lui ne ascoltavi in ogni angolo della città. Tutti lo conoscevano naturalmente. Si raccontava degli allenamenti individuali delle 6 del mattino che Drazen sosteneva prima di andare a scuola, ancora bambino… Aneddoti come questi mi hanno accompagnato nel mio percorso di crescita, anche perché a Sebenico gli stessi allenatori che aveva Drazen all’epoca sono poi diventati i miei maestri. Inoltre, alcuni suoi compagni di squadra di allora sono poi diventati allenatori della scuola di basket che è stata inaugurata a Sebenico nel 1997, intitolata proprio a Drazen Petrovic. Io sono cresciuto lì, ma anche se non ami il basket - a Sebenico così come in tutto il resto della Croazia - sai chi è Drazen. L’eredità che ha lasciato è stata davvero enorme per me e ispira ancora oggi tantissimi ragazzi, a quasi 30 anni di distanza dalla sua morte. Questo lo rende una leggenda: non muori mai se tutti sanno chi sei e riconoscono il tuo valore, anche a distanza di decenni.