Tom Hanks in una scena iconica del celebre film 'Forrest Gump' associa la vita ad una scatola di cioccolatini, talmente piena di sorprese ed imprevisti da non poter prevedere cosa succeda. Le esperienze vissute da Ousmane Diop sono invece come il “Chebu-yapp” – piatto della tradizione senegalese a base di riso e manzo – intrise di storia, con radici ben profonde, ricche di significato, ma dal percorso lungo e non privo di ostacoli. Cucinare questa pietanza – come racconta lo stesso Ousmane – richiede parecchio tempo, lui tuttavia non si tira indietro così come non si è mai tirato indietro di fronte ad una situazione difficile. Anche Penda Mbaye, cuoca del governatore francese di fine '800, quando inventò la ricetta del “Chebu-jen” non si fece scoraggiare dalla richiesta di utilizzare il miglio che però era carente a quell'epoca. Prese dunque il “riso spezzato”, tutti quei chicchi imperfetti, piccoli e spezzati da sempre vicini alla tradizione povera e scrive una pagina fondamentale della tradizione del Senegal.
“Io so fare la versione con la carne, ma in Senegal originariamente questo piatto si fa con il pesce. Affinché sia ben cotto, il manzo deve stare sul fuoco per circa due ore e mezza prima di continuare con la preparazione del piatto. Una volta pulito il riso, lo aggiungi insieme agli altri ingredienti e mescoli tutto per fargli prendere il sapore che desideri. È un piatto che richiede tempo e grande pazienza, cosa che purtroppo io non ho, ma quando decido di cucinare devo averne per forza. Ci vogliono circa tre o quattro ore per prepararlo al meglio, ma come per tutte le cose se hai pazienza il risultato finale poi è ottimo”.
La pallacanestro è il piatto forte di Diop, il quale ha cominciato fin da piccolo ad approcciarsi a questo sport proprio nella sua città natale. A nove anni, come ogni bambino di quell'età, il suo sogno era trascorrere più tempo possibile con i suoi compagni facendo ciò che lo portava a sorridere così tanto. Ousmane però, capisce in breve tempo che quel divertimento lo può portare lontano: è più forte, è più alto, ma soprattutto è più recettivo e questo aspetto è fondamentale per la sua crescita come giocatore.
“La passione per il basket c'era già quando vivevo in Senegal, avendo cominciato nel 2009 a giocare grazie ad alcuni amici con cui andavo praticamente tutti i giorni al campetto. All'inizio era solo un divertimento, un momento in cui potevo trascorrere del tempo scherzando e chiacchierando con i miei amici di sempre; successivamente ho cominciato a fare gli allenamenti, mi è piaciuto sempre di più ed è proprio il basket ad avermi portato qui oggi, perciò è solo una continuazione di quello che è stato un lungo viaggio. Qua la possibilità di migliorare è maggiore rispetto al Senegal, perché ci sono strutture che noi non abbiamo. Da quel momento ho capito che avrei potuto fare questo sport ad un livello più alto”.
A soli 23 anni, la carriera di Ousmane Diop si sta lanciando verso un futuro luminoso con la divisa del Banco di Sardegna Sassari. Nonostante la giovane età, il classe 2000 non può fare a meno di guardarsi un attimo indietro a quando era solo un bambino, quando ha salutato la sua famiglia ed è partito per il suo lungo viaggio.
“Guardandomi oggi rispetto a ciò che ho fatto per le persone vicine a me e alla mia famiglia, sono molto felice e molto fiero. Purtroppo non è stato facile, perché sono andato in un posto nuovo; avevo degli obiettivi precisi, uno dei quali era comprare la casa ai miei genitori e con mia sorella siamo riusciti a farlo accadere. Se guardo indietro dico grazie a Dio, grazie per questa opportunità che mi hai dato. Sono molto felice. Quando vivi e cresci in certe situazioni cerchi di sperare in un futuro migliore per tutti: mio padre ha sempre lavorato duro, mia madre è proprio una guerriera incredibile, perciò non posso dire che mi hanno fatto mancare delle cose, ma l'obiettivo è cercare sempre di migliorare la propria qualità della vita. Se riesci in tutto questo facendo qualcosa che ami come per me la pallacanestro, mi sembrava giusto rendere la vita migliore anche alla mia famiglia perché ho visto quanto lavoravano duro e dovevo dargli una casa tutta per loro. Questa è una cosa che ti fa proprio piacere e ti rende molto orgoglioso”.
La lunga separazione dai propri genitori per inseguire una vita migliore e darne loro una altrettanto degna è tutta parte di un grande piano. Il sacrificio di non poter contare fisicamente sulla presenza di una madre o di un padre che ti assistano in un momento particolarmente difficile della vita, viene ripagato in futuro perché gli sforzi fatti fino a quell'istante daranno i loro frutti.
“È stata dura, sono stato nove anni senza vederli e dunque è stato un sacrificio grande da entrambi i lati, perché avere un figlio e non vederlo per così tanto tempo e viceversa è una cosa complicata. Io però vedo tanti ragazzi che sono stati lontani dalla loro famiglia anche per quindici anni; loro però sono qua solamente perché vogliono aiutarle ad avere una vita migliore e vivere loro stessi meglio di prima. Quindi purtroppo questo sacrificio lo devi fare per arrivare ad un certo livello di vita; il viaggio fino ad ora è stato bellissimo, ci sono stati momenti difficili ma questo fa parte della vita di tutti noi. I momenti difficili ci sono e sempre ci saranno, speriamo di no ovviamente, ma sono cose che possono sempre capitare. La sfida è superare tutte queste difficoltà perché poi dopo ottieni il meglio”.
Per un adolescente trovarsi in un nuovo corpo è come essere catapultati all'interno di un robot senza avere le istruzioni d'uso a portata di mano. Non sai quali siano i meccanismi per farlo funzionare, senti spesso la necessità di avere qualcuno che ti dica come muoverti e perché dovrai fare quella determinata azione. Quando sei così giovane e ti ritrovi in una realtà completamente diversa, la quale sconvolge la tua routine e cambia ogni tua visione del mondo, ti importa solo di fare la scelta giusta e perseverare fino al conseguimento dell'obiettivo.
“L'emozione che ho avuto quando sarei dovuto andare in Senegal è iniziata ancora prima di comprare il biglietto che mi avrebbe riportato dalla mia famiglia. La settimana prima è stata incredibile; non sapevo cosa fare e mi chiedevo come avrei dovuto comportarmi, cosa avrei dovuto fare, perché non vedevo nessuno di loro da nove anni. Mi sono venute in mente tante domande e l'emozione è stata talmente grande che è impossibile anche solo da spiegare se non la vivi in prima persona. Ero più emozionato durante la settimana precedente rispetto a quando poi ho rivisto la mia famiglia, perché in quel momento quando li ho rivisti ho potuto completamente lasciarmi andare e capire che finalmente era successo, avevo davvero riabbracciato mia madre e mio padre grazie a Dio. È stata dura, ma questo era l'obiettivo per tutti noi e finalmente potevo dire che lo avevamo raggiunto. Io sono stato molto fortunato, perché la famiglia che mi ha accolto a Udine – i Caruso – mi ha cresciuto come fossi davvero loro figlio. Non avevo nient'altro a cui pensare se non alla scuola e alla pallacanestro; inoltre la mia famiglia dal Senegal faceva di tutto per provare a sentirmi spesso, mi supportava e trovava sempre un momento per me, mi diceva di stringere i denti anche se era dura però era quello il senso della vita. La famiglia che mi ha adottato qui in Italia mi ha sempre aiutato e lo fa tutt'ora. Non riesco davvero quasi a parlare (dice visibilmente emozionato, ndr), perché loro hanno fatto davvero un sacco di sacrifici per me e per gli altri ragazzi che erano con me. È stato davvero incredibile e penso che non potrò mai ripagare una roba del genere, mai, perché è stato qualcosa di davvero grande”.
Ousmane Diop è una forza della natura: lo ha dimostrato a più riprese nella vita, lo dimostra sul parquet con la maglia del Banco di Sardegna Sassari e ha sempre dato il massimo nelle differenti tappe della sua carriera. Da Udine in A2 si trasferisce proprio nella città sarda per avere il primo assaggio di basket professionistico; viene prestato alla Dinamo Cagliari nella stagione 2018-19 per fare successivamente ritorno alla corte di coach Pozzecco durante i play-off. Rispetto al suo minuaggio abituale nel capoluogo friuliano, la prima esperienza in Sardegna è solo formativa perché trova poco spazio all'interno di un gruppo ambizioso; tuttavia, è proprio quel gruppo a spingere il classe 2000 a non porsi limiti.
“Ero abituato a giocare più di 20 minuti a partita quando ero con Udine, perciò ritrovarmi sempre seduto in panchina era una novità. Quello che ho imparato quell'anno lì però è stato incredibile: mi allenavo con gente davvero forte e potermi confrontare tutti i giorni con giocatori del genere mi ha migliorato molto. La mia fortuna è anche aver fatto parte di un gruppo così speciale da ottenere 22 vittorie di fila, qualcosa di pazzesco che sul momento nemmeno riesci a spiegartelo. Sono emozioni che vivi giorno dopo giorno, non sei abituato ad essere parte di un contesto del genere, perciò l'unica cosa che puoi fare è godertela e imparare tutto ciò che riesci. Pozzecco è una persona meravigliosa. Nonostante io abbia fatto parte di quel gruppo per meno tempo, lui si ricorda sempre di me. A volte penso che sia impossibile avere tempo per tutti e ricordarsi tutti quelli che hai allenato; invece lui prima di ogni partita importante, avvenimento importante o se stai per affrontare una nuova stagione, prende e ti chiama o ti manda un messaggio anche solo per chiederti come stai. Non c'è un aggettivo per descriverlo. Lui è Poz! Seriamente, persone come lui ce ne sono davvero pochissime. È capace di tirare fuori il meglio dalle persone non solo sul campo, perché lui è uno di quelli che ci mette il cuore quando fa le cose”.
Chi come lui non ha avuto spazio fin da subito nella massima serie, può mostrare le proprie carte in una competizione come la IBSA Next Gen Cup. Un torneo giovanile che coinvolge le sedici squadre della Serie A UnipolSai e che oggi aspetta solamente di conoscere una vincitrice dopo la Final Eight di Napoli (10-12 aprile). Le possibilità di crescere sono numerose e lo spazio sui social, oltre all'enorme riscontro avuto già dai primi due concentramenti di Pesaro e Trento-Rovereto, sta generando interesse crescente intorno a questa manifestazione.
“Io non ho avuto modo di giocarla, però questo tipo di torneo rende possibile ai ragazzi che si allenano con la squadra di Serie A ma non hanno ancora minuti, di tirare fuori tutto il meglio e magari ottenere davvero la visibilità che stanno cercando. Hai possibilità di imparare tanto da qualsiasi avversario, perché puoi giocare contro uno di quei giovani che fa il 12° o il 13° in Serie A e ha già esperienza oppure contro altri che sognano di trovare spazio come 12° o 13°. Io vedo che ci sono ragazzi davvero fortissimi che partecipano a questi tipi di tornei e penso che se verranno seguiti bene, tra due o tre anni saranno giocatori incredibili. Alcuni hanno già uno sviluppo fisico molto avanzata per l'età che hanno, perciò lavorando sui fondamentali della pallacanestro giorno dopo giorno avranno modo di diventare giocatori professionisti”.
Dai giovanissimi ad un giovane Diop che vive una nuova esperienza quando si trasferisce a Torino. Il primo anno purtroppo si chiude con la sospensione dei campionati a causa della pandemia da Covid-19, ma l'anno successivo sotto la Mole Antonelliana c'è la definitiva consacrazione di un centro che ha grandissime qualità a rimbalzo e una fisicità fuori dal comune. Al termine di una stagione rocambolesca, il pivot viene premiato come MVP Italiano della Serie A2.
“Come dicevo quell'anno a Sassari in mezzo a grandi campioni mi ha aiutato tantissimo a migliorare ogni aspetto della mia pallacanestro; quei risultati ottenuti mi hanno portato alla grande stagione giocata a Torino. Ora racconto un aneddoto: finita la mia stagione a Sassari, quando ho saputo di dovermi trasferire a Torino lo dissi subito alla mia famiglia italiana. Mio fratello la prima cosa che mi disse fu “Se non vinci l'MVP, non ti faccio mettere più piede in casa” (ride, ndr). Lui anche doveva venire a Torino, ma per studiare e così abbiamo deciso di vivere insieme; allora lui subito mi fece questa battuta come rito per iniziare la nuova stagione. Quando l'ho vinto, la prima cosa che ho fatto è stato metterglielo davanti e dirgli “Hai visto? Tutto tuo!” (ride ancora, ndr). È stata un'altra bella esperienza, perché abbiamo lavorato molto bene e tutto il nostro percorso è stato indimenticabile. Per me poi è stata come una rivincita, perché mi ricordo che quando avevo iniziato a Udine qualcuno mi diceva che io dovevo smettere, dovevo cambiare sport perché la pallacanestro non faceva per me. Quando ho vinto il premio di MVP il primo pensiero è andato a quello, mi ha fatto piacere dimostrare a me stesso e agli altri cos'ero in grado di fare giocando a basket. So bene che questa gente avrà letto, visto, sentito da qualche parte dei miei progressi e del mio premio; magari avranno reagito male e io invece li ringrazio perché anche le loro parole hanno portato a migliorarmi per arrivare a quell'obiettivo. Mi sono sentito toccato nell'orgoglio, ma questo orgoglio l'ho incanalato in qualcosa di giusto non in rabbia o cattiveria, solo in motivazione. Quindi sì quando ho vinto l'MVP Italiano di A2 ho subito pensato a loro. Sono una persona calma, non odio certo le persone per dei commenti così, ma se vengo toccato nell'orgoglio devo subito smentire ciò che hai detto e trasformarla in una cosa positiva”.
Una stagione rocambolesca dicevamo, terminata con una Tortona trionfante proprio in casa della favorita Torino. Gli ultimi istanti di gara-4 e gara-5 sono rimasti indelebili nella mente degli spettatori e nella mente dei protagonisti sul campo.
“In gara-4 quel rimbalzo mancato, poi gara-5...è stata durissima riprendersi. Avevamo lavorato sodo per arrivare fino a lì, avevamo giocato una stagione pazzesca. Finita la partita sono tornato a casa, mi sono sdraiato e ho pensato non fosse destino, doveva per forza andare così. Io sono musulmano e credo nel destino; ciò che è successo è stato per forza opera di qualcosa di più grande, era deciso che andasse così come insegna la mia religione. Doveva succedere. Le due settimane successive sono state assurde: non volevo più guardare basket, sentire parlare di basket; ho tolto i social perché non volevo nulla davanti che fosse relativo alla pallacanestro. Questo è quanto mi ha ferito quella finale, però sono cose che purtroppo possono succedere. Io sono contento di aver dato tutto, da Aprile giocavo con il ginocchio praticamente rotto, ma non avrei mai voluto lasciare la squadra e sono arrivato fino in fondo per dare tutto quanto ad una piazza che se lo meritava”.
Il ritorno a Sassari, l'operazione, la semifinale play-off; una nuova stagione, un inizio altalenante e poi l'exploit. Dagli alti e dai bassi c'è sempre un modo per uscirne; il come e il perché non sono un problema, la vita è piena di momenti duri al termine del quale si può gioire. Questo è quello che gli hanno insegnato i genitori negli anni d'infanzia in cui lo hanno cresciuto, ma anche negli anni dell'adolescenza lontano da casa. Ousmane Diop ha avuto tante figure di riferimento e da ognuna di esse ha potuto carpirne l'essenza nella sua forma più pura.
“Dal lato personale il mio idolo è papà. Un uomo che ha lavorato sodo, che ha sempre messo la famiglia al primo posto e da lui ho proprio capito l'importanza che ha la famiglia. Perciò è lui il mio riferimento principale, vedo me in lui e lui in me. Dal lato sportivo, come per tutti i senegalesi, il mio riferimento è Sadio Mané. Io scherzo sempre con i miei compagni di squadra e dico che Mané è più importante anche del nostro presidente (ride, ndr) per le cose che fa sia dentro sia fuori dal campo. Lui è davvero una persona fantastica. Nessuno lo obbliga o lo ha obbligato a fare ciò che ha fatto [ha deciso di donare 500 mila euro per un ospedale aiutando ben 34 villaggi nei pressi di Bambali ad accedere al servizio sanitario; ha fatto donazioni per aiutare le autorità in Senegal durante la pandemia; ha costruito una scuola e uno stadio che fornisca anche cibo, vestiti e scarpe a coloro che sono in condizioni di estrema povertà. Infine dona una somma fissa mensile alle famiglie delle regioni impoverite del Senegal] e vederlo fare queste cose mi fa pensare a quanto sia incredibile. Lui è proprio il mio riferimento dal lato sportivo”
L'obiettivo nella vita è quello di essere sempre una persona migliore, di fare del bene e aiutare chi si trova in condizioni più complicate. Ousmane vuole trasformare la sua fortuna nella fortuna degli altri e per questo motivo sogna in grande. Grande come il suo cuore.
“Il mio sogno nel cassetto da quando sono ragazzino è quello di indossare la maglia della nazionale della mia terra. Però vorrei fare del bene per gli altri costruendo centri sportivi per i ragazzini del mio paese. È una cosa che ho sempre avuto dentro e cercherò, se ne avrò l'opportunità, di farlo veramente. Voglio aiutare tutti quei bambini che vorrebbero avere le possibilità che ho avuto io e realizzare i loro sogni”.
Redazione: Overtime - Storie a Spicchi