Dieci stagioni dopo il suo sbarco in Italia avvenuto a Varese nel 2012, Adrian Banks è ancora uno di quei giocatori in grado di fare la differenza nel primo campionato nostrano. La dimostrazione di ciò è arrivata, da parte della guardia di Memphis, nel turno infrasettimanale di Serie A UnipolSai 2022/23 andato in scena mercoledì quando, nel match vinto 96-82 contro la Carpegna Prosciutto Pesaro, il prodotto di Arkansas State ha indirizzato l’incontro mettendo a referto il suo dodicesimo ventello stagionale.
Con 25 punti in 35 minuti sul parquet, l’ex Avellino, Brindisi, Fortitudo Bologna e Trieste ha permesso alla sua NutriBullet Treviso d’interrompere una striscia di quattro sconfitte consecutive trovando una vittoria fondamentale per avvicinare aritmeticamente la salvezza, obiettivo questo per il quale il terzo marcatore del campionato italiano con 16.9 punti di media a partita dovrà, assieme ai compagni, fare l’ultimo sprint nelle restanti giornate di regular season.
Nel frattempo, dopo l’ennesimo exploit realizzativo della sua stagione, noi ne abbiamo approfittato per sentirlo e farci raccontare, nelle nostre “5 domande a ...” di questa settimana, che clima si respiri al PalaVerde, quanto incida (e abbia inciso) la famiglia sul percorso con la palla a spicchi in mano, come si sia integrato nel contesto italiano e perché, a suo avviso, giocatori d’esperienza come lui siano ancora così impattanti in Serie A al giorno d’oggi.
Mercoledì avete conquistato un successo importantissimo contro Pesaro davanti al vostro pubblico: com’è giocare in una piazza storica ed esigente del basket italiano come Treviso?
È davvero fantastico. Anche in una stagione difficile, il modo in cui i tifosi ci stanno sostenendo è magico. Essendo in Italia da qualche anno, conoscevo la storia e la tradizione della Benetton Treviso. Alcuni amici che ne facevano parte mi hanno confermato quanto potesse essere speciale stare qui dicendomi "Ti assicuro che alcune sere al Palaverde, quando segni un canestro e senti i fans esplodere in quel modo, ti sembrerà quasi di indossare il verde, di avere di nuovo quella maglia". Qui si sente e si respira la tradizione e si capisce quanto il basket significhi per le persone qui. Molti di loro vengono alle partite da 20-30 anni e ancora oggi portano a palazzo la stessa carica. A quest'età e in questo momento della mia carriera, avere un pubblico come questo davanti al quale giocare ogni sera è probabilmente una delle cose migliori che potessi desiderare.
Hai 37 anni ma vedendoti in campo e ammirando ciò che ancora riesci a fare non si direbbe: qual è il segreto per essere così performante alla tua età? Ti alimenti in maniera particolare? Assieme a te, ci sono altri giocatori con più di 35 anni come Logan, Moss e Cinciarini che ancora oggi sono leader nelle loro squadre e sanno fare la differenza: come mai secondo te?
Non so se posso svelarlo, ho ancora del lavoro da fare qui, ho ancora un paio di anni davanti a me e sto cercando di essere il migliore in quello che faccio quindi non so se posso dire il mio segreto... Una delle cose però che mi fa andare avanti, e che non è di certo un segreto, è che amo il basket. Sembra così elementare e semplice ma amo davvero allenarmi. Già da bambino non riuscivo a vedermi in altre vesti e la cosa migliore è che ora ho una famiglia alle spalle che mi sostiene anche quando, a quest'età, la gente mi chiede "Ma giochi ancora a pallacanestro?” e io rispondo "Sì". La mia famiglia è ancora felice ed entusiasta, i miei figli sono contenti perché stanno diventando grandi e capiscono chi sono quindi ho tante nuove e differenti motivazioni per continuare a giocare a basket. Quando smetterò, non ci sarà più un pubblico, come quello di Treviso, ad applaudirmi quindi voglio farlo il più a lungo possibile. Devo godermi il più a lungo possibile questa esperienza. È questo uno dei miei segreti. Oggi poi penso sia bello essere il veterano di una squadra, divulgare un po' della mia esperienza qua e là e guidare in un certo modo i più giovani insegnandogli come essere dei professionisti e come approcciare il gioco della vita. È un qualcosa che mi costringe a essere ancora più professionale e a prendere sul serio il mio lavoro, perché se dico loro che dobbiamo fare una cosa, significa che anch’io devo farla. È questa la motivazione che mi sta spingendo ora. Non so per quanto durerà ma sicuramente ora mi sto godendo il viaggio. La mia nutrizione? Mangio quello che mi piace. Non preparo pasti o altre cose ma mi attengo a una serie di alimenti di base e molto semplici che ritengo siano adatti al mio corpo. Faccio attenzione a come si sente il mio corpo dopo aver mangiato determinati cibi e quando devo giocare evito di mangiarne alcuni. L'acqua infine è una delle mie migliori amiche. Essere idratati può essere davvero d'aiuto. È incredibile quante partite in cui non gioco bene mi sembra di non aver bevuto abbastanza acqua.
Quando sono arrivato in Italia, il campionato era un po' più focalizzato sui lunghi, il ritmo era più lento, non c'erano tanti possessi e il gioco veniva maggiormente controllato dall'allenatore. Avevi un playmaker che gestiva il ritmo e si concentrava sull'impronta che voleva dare al gioco. Ora per il modo in cui si gioca si vedono anche tre possessi di fila in cui si tira solo da tre punti...Ci sono momenti in cui penso davvero “Ok, la situazione sta degenerando, stiamo giocando in modo folle” ed è allora che mi dico di provare a far qualcosa per cambiare l’inerzia della gara perché conosco il momento o so cosa chiede l'allenatore. Ecco, essere allenabili è un aspetto importante: credo che tutti i giocatori che hai nominato lo siano, mentre la nuova generazione di giocatori, non voglio dire che non lo sia altrettanto, ma ha molte più distrazioni con i social media e tutto quello che c'è là fuori.
Qual è stata la tua miglior prestazione offensiva qui in Italia a tuo avviso? In Italia hai avuto modo di vivere e visitare diverse città. Ci racconti una storia divertente o un bel ricordo di una tua esperienza qui? Ti senti in qualche modo un po' italiano anche tu?
Non è semplice perché ho giocato tante stagioni qui, perciò, non indicherei la migliore in assoluto ma le tre, per me, più magiche. La prima è la gara con Brindisi alle Final Eight di Coppa Italia a Pesaro contro Sassari dove credo di averne segnati 37 e c’era un'atmosfera incredibile. Quel momento mi fa ancora venire i brividi. La seconda, l'anno prima, la partita in cui, credo a Firenze, abbiamo battuto Avellino. La terza infine è il match vinto l'anno scorso contro Reggio Emilia al Paladozza: ho ancora le scarpe di quella partita. Queste sono le tre prestazioni che hanno un certo peso nel mio cuore.
Una delle cose che credo mi abbia aiutato a sopravvivere in Italia è che ho preferito arrivare qui, come straniero americano, per essere amico e fare amicizia con la gente del posto, con gli italiani, con la gente della città in cui ero cercando di capire il loro modo di vivere, il modo in cui amano fare le cose così da potermi inserire, esattamente come nel basket quando arrivi in una nuova squadra e devi trovare un modo per inserirti nel sistema di gioco predicato dall’allenatore. Un momento speciale è stato certamente l'anno scorso a Trieste quando, assieme a Fabio Mian, Lodovico Deangeli e altri ragazzi, ci siamo incontrati da un amico, che è cuoco e ha un ristorante in città, e per me è stata come la prima volta che uscivo con dei ragazzi della mia età che avevano tutti delle cose da fare nella loro vita. Ricordo che una sera eravamo a questo ristorante, lui aveva chiuso e noi eravamo lì a bere e a divertirci, ascoltando vecchia musica italiana e cantando. Mi sembrava di essere in un vecchio film italiano o qualcosa del genere, con lui che cucinava qualcosa e noi che cantavamo. Quando me ne sono andato, ho pensato: "Questi ragazzi sono pazzi". È qualcosa che non ho mai sperimentato nei miei nove anni in Italia ed è stato qualcosa di nuovo e speciale. Sono grato che abbiano condiviso quel momento con me.
Io un po' italiano? Credo che la gente preferisca che io parli di più in inglese per potermi capire davvero, perché con l'italiano non credo che mi si riesca a capire bene. In ogni caso, per quanto riguarda lo stile di vita e il modo in cui gli italiani vivono, credo di essermi integrato bene. Non vengo nemmeno più guardato come un americano. La gente pensa che io venga da un altro Paese, qui a Treviso ho amici italiani con cui esco... È fantastico. Quindi l'Italia è davvero casa per me. Differenze tra sud e nord? Quando sono passato da Varese ad Avellino è stato come se mi fossi trasferito dal Tennessee a New York City o qualcosa del genere. Un sacco di mani, un sacco di clacson, un sacco di urla, un sacco di gente nel tuo spazio personale. È stato sicuramente un bel cambiamento. Quando sono andato a Brindisi ero un po' più preparato e mi sono innamorato del modo in cui le persone lasciavano trasparire le emozioni e mi facevano capire di essere gente forte e orgogliosa. Sicuramente la vita è totalmente diversa, anche da un punto di vista paesaggistico: il nord ha i profili nitidi delle montagne, il sud ha le spiagge e i campi, entrambi hanno stili di vita diversi ma ciascuno trovo sia molto bello.
Vieni da Memphis, Tennessee, una terra nota per la sua produzione musicale. Qual è il tuo rapporto con la musica?
La musica è come una droga per me, davvero. Mi secca non ascoltarla per troppo tempo. Alcune canzoni, a volte mi aiutano a uscire da uno stato d'animo. Naturalmente, appena prima di una partita, la musica è importante: le vibrazioni, i toni, tutto ciò che ne deriva, le parole, il ritmo. Anche dopo una partita, quando stai cercando di rilassarti o magari stai bevendo un cocktail con gli amici, metti un po' di Drake, canti, rappi un poco...l’ho detto, è come una droga, ha un potere lenitivo. Mi ha aiutato anche a superare molti momenti di solitudine qui, senza la mia famiglia. Non ho una playlist personale, vado piuttosto a caso: quando ascolto un album per trovare nuovi brani, ne skippo un paio, ne seleziono altri...tendo a restare fedele, comunque, alla musica che mi fa sentire in un certo modo. Adoro il blues e il funk e mi piace ascoltare le stazioni radio italiane perché trasmettono un sacco di vecchio blues americano, hip hop, be-bop, pezzi solo strumentali... Musica italiana? Mi piace Capo Plaza. Ma se usciamo, prendiamo un cocktail e facciamo festa, ascolterò qualsiasi cosa. Voglio solo avere qualcosa di sottofondo su cui muovermi e che mi trasmetta una buona vibrazione ed energia.
Hai al tuo fianco una famiglia numerosa e importante.
Ho un figlio di 13 anni, Adrien, Elijah che ha sei anni, Alice di tre e Godji Florence (Firenze è una delle nostre città preferite) che ha circa nove mesi. Poi c’è mia moglie è Rachel. Ci siamo conosciuti in Israele. Il mio figlio più grande non l’ho avuto da lei ma da una fidanzata che avevo all'università prima ancora di venire in Europa ed è la ragione per cui lui ha 13 anni e il mio secondo figlio ne ha sei anni. Adrien ha trascorso molto tempo con me in Italia, è stato con me forse cinque o sei mesi all'anno a Varese, in entrambe le stagioni che ho fatto là. Quando ero a Brindisi, è stato lì on me un anno intero quando aveva cinque anni e di questo va dato grande merito a coach Piero Bucchi perché, ai tempi, quando la mia famiglia dovette partire e mio figlio era a scuola lì gli dissi “se mio figlio non può stare qui con me da solo allora dovrò lasciare la squadra un mese in anticipo” (la scuola e l'educazione di mio figlio sono molto importanti) e lui rispose che poteva restare. Quella stagione quindi mio figlio ha viaggiato con me alle partite per circa un mese. È persino uscito con me una sera (non in un club o in una discoteca ma in un bar con alcuni amici) a Milano, e tutto questo a cinque anni. Siamo poi andati a vedere insieme la finale al Forum...ho condiviso con lui momenti davvero speciali in Europa. Gli altri miei figli hanno vissuto qui con me negli ultimi quattro o cinque anni. Mio figlio, Elijah, ama lo sport. Adora ricevere le maglie di tutte le squadre in cui gioco quindi è pienamente focalizzato, credo, su un futuro nello sport. Mia figlia Alice è nel suo mondo: in questo momento è lei a gestire la famiglia. Potrei chiamarla in questo momento e lei potrebbe urlarmi contro dicendo "Non voglio parlare con te" come il contrario, quindi, sì, è lei che gestisce la casa in questo momento. Mia figlia Florence è una sorta di miracolo. Mia moglie ha avuto qualche problema all'inizio della sua gravidanza ma è stata abbastanza forte per concluderla. Quando penso a come dovrebbe essere un bambino, penso esattamene a lei: dorme, è tranquilla, puoi tenerla in braccio tutto il giorno, si agita solo quando ha fame. Gli altri non sono stati così, con loro le notti erano sempre molto agitate. Lei è una bambina favolosa.
Mio padre è nella Hall of Fame del suo liceo, è stato una stella dell'atletica, del football e del basket (ha giocato per l'Università di Memphis). Non ha intrapreso una carriera da professionista, ha avuto anche qualche infortunio ma è comunque nella Hall of Fame del suo liceo a Force City, in Arkansas. Non direi che mi ha insegnato la pallacanestro, ma sicuramente è stato lui a casa a spingermi in quella direzione. Lui e mia madre mi hanno lasciato decidere da solo. Quando ho raggiunto una certa età e lui ha visto che stavo facendo sul serio, è stato allora che ci siamo tuffati insieme. E anche in quel momento, ha fatto la sua parte e mi ha permesso di capire il basket per mio conto. Credo che sia per questo che mi piace così tanto, perché non mi è stato imposto da mio padre. Non mi ha detto che dovevo giocare a basket. Mi ha detto: "Ehi, vuoi lavorare come me nel mondo reale e fare il muratore, o vuoi provare a vedere se puoi giocare a basket in una palestra con l'aria condizionata? E io gli ho risposto: "No, non voglio farlo, quindi diamoci dentro duramente con lo sport". Oggi ha 60 anni ma non si ferma, non smette di lavorare, di muoversi e viaggiare. Mia madre, Greta, era una cheerleader al liceo quindi credo di aver preso da lei la flessibilità e da mio padre l’atletismo e la potenza.
Poi ci sono i genitori di mia moglie che, potrebbe sembrare assurdo, ma sono più legati alla mia carriera di quanto lo siano i miei genitori perché loro sono abituati da anni al basket mentre la famiglia di mia moglie e suo padre sono super appassionati tanto da guardare dall’America le mie partite e viaggiare fin qui per vedermi giocare. Questa è una motivazione in più: ci sono ancora tante persone che mi trattano come se fossi un venticinquenne che sta vivendo il suo sogno, giocando a basket.
Frank Vitucci è come uno zio per la mia famiglia, il CEO potremmo dire, Piero Bucchi è lo stesso, Max (Ferraiuolo) il team manager di Varese ha cambiato i pannolini a mio figlio durante gli allenamenti... La mia famiglia ha dei legami e delle relazioni importanti qui, proprio come me quindi questo dice molto su di loro. Ho nipoti e nipotini che sono pronti a ricevere i miei insegnamenti sul basket. Sto facendo il conto alla rovescia degli anni che mi rimangono come giocatore prima di poter prendere tutta l'esperienza che ho fatto e metterla a disposizione dei miei nipoti e dei bambini usando anche le relazioni che ho qui in Italia e in Europa.