di FIlippo Stasi
Nicola, un inizio di stagione davvero ottimo per la NutriBullet Treviso: 3 vittorie nelle prime 5 giornate di campionato e lo splendido cammino nella FIBA Champions League, dove siete ancora imbattuti tra qualificazioni e girone. Quali sono le tue sensazioni circa il potenziale di questa squadra? Le sensazioni che ho sono positive, abbiamo già raggiunto il primo obiettivo stagionale che era vincere il torneo preliminare della FIBA Basketball Champions League e vogliamo continuare a vincere più partite possibile. Per noi la stagione è iniziata molto presto, siamo stati bravi a trovare subito una buona chimica di squadra, cosa che ci ha permesso in poco tempo di raggiungere un traguardo importante; lo staff tecnico ha fatto un ottimo lavoro in tal senso. Però è ancora presto per poter capire effettivamente fin dove possiamo arrivare, quel che è certo è che vogliamo onorare ogni partita, sia di campionato sia della Coppa europea.
Sei parte integrante di un nucleo di italiani ben assemblato e in grado di garantire a coach Menetti tanti minuti solidi. Quanto è importante poter fare affidamento su giocatori italiani in grado di tenere bene il campo a questo livello? Mi trovo bene con tutti i miei compagni, non solo con i ragazzi italiani e con chi era già a Treviso dallo scorso anno. Siamo un gruppo molto unito, anche i nuovi arrivati si stanno integrando al meglio. L’esperienza e il carisma di figure come quelle di Chillo e Imbrò sono fondamentali, ma gli stessi Bortolani e Casarin sono ragazzi tosti mentalmente, molto motivati e concentrati sul lavoro quotidiano in palestra. Spesso si fermano a fine allenamento per sottoporsi a una sessione extra di allenamento, hanno la faccia giusta. Anche i giovani così affamati danno l’esempio, non solo i giocatori più navigati. La loro freschezza ci rende frizzanti e imprevedibili.
Sotto canestro, in estate Christian Mekowulu ha salutato Treviso che lo ha subito sostituito puntando su un giocatore come Henry Sims, che ha caratteristiche totalmente differenti. Di conseguenza, come è cambiato il modo di giocare tuo e della squadra? In entrambi i casi parliamo di giocatori di alto livello. Mekowulu ci ha dato tantissimo l’anno scorso, ha disputato una serie playoff devastante contro la Virtus e sono convinto che riuscirà ad esprimere le sue qualità anche a Sassari. Lo stesso Sims è tra i lunghi più forti del campionato: non ha l’esuberanza atletica e la mobilità di Mekowulu, ma possiede una tecnica sopraffina e una dimensione di gioco interna che cerchiamo di sfruttare maggiormente rispetto alla scorsa stagione. Per quanto mi riguarda, mi ritengo un ‘4’ duttile, dinamico, capace di adattarsi a quelle che sono le esigenze della squadra e le varie situazioni di gioco che si sviluppano in campo. Individualmente lavoro in particolare sulla confidenza nel trattare la palla, voglio essere più deciso quando attacco dal palleggio. Anche il tiro da fuori è un fondamentale sul quale sto insistendo da anni in allenamento per diventare una ‘minaccia’ sempre più credibile agli occhi degli avversari. Crescere in questi due aspetti del mio gioco consentirebbe alla squadra di trovare spaziature migliori in campo e costruirsi tiri ad alta percentuale con maggiore facilità.
Sei nato a Treviso da genitori provenienti da Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo. Quanto ti senti legato alle origini della tua famiglia e quanto è invece l’orgoglio di giocare per la squadra della propria città? È emozionante giocare per Treviso, in questa città sono nato e cresciuto, ci sono legato affettivamente. Allo stesso modo, la cultura della mia famiglia è nel mio sangue, per cui sono felice di definirmi un cittadino del mondo. Anche perché sin da ragazzino mi sono trasferito prima a Venezia e poi a 19 anni negli Stati Uniti… Adattarsi sin da giovanissimi a vivere da soli e a scenari diversi rispetto a quelli ai quali eri abituato, ti spinge a conoscere la nuova realtà e a integrarti sempre più nella stessa. Ritengo che il mondo stia andando sempre più in questa direzione e ne sono contento, gli scambi culturali arricchiscono.
Chiudiamo approfondendo proprio la tua esperienza negli USA: hai frequentato il college di Rhode Island, dove hai ottenuto la laurea in Kinesiologia e hai giocato nel campionato NCAA. Cosa ci racconti di quei tre anni e delle differenze principali che hai riscontrato tra Italia e Stati Uniti d’America nel piano formativo offerto ai ragazzi? Questo è un tema che mi appassiona molto, perché il triennio trascorso negli USA mi ha aperto la mente sotto diversi aspetti. Al college probabilmente mi sono formato come persona ancor più che come atleta. Certo, le sessioni di allenamento che sostenevo dall’altra parte dell’oceano erano estenuanti. Rivelo solo che in preseason - al college dura circa tre mesi - dopo aver frequentato le lezioni in mattinata, nel pomeriggio ci aspettavano tre ore di allenamento sul campo più la sessione di pesi, ogni giorno! A Rhode Island, comunque, ho capito che lo studio è di fondamentale importanza per tutto ciò che esula dal campo da basket. Cosa che in Italia fino a quel momento non ero riuscito a capire, magari perché ero ancora troppo acerbo. Però sono convinto che nel nostro Paese, alla base, ci sia un problema di compatibilità tra scuola e sport. Tra queste due sfere formative dell’individuo, spesso non c’è dialogo. Anzi, spesse volte un aspirante atleta è costretto a rinunciare agli studi o agli allenamenti, quando invece sono attività che dovrebbero andare di pari passo perché ugualmente importanti per la vita di una persona. Dagli Stati Uniti dovremmo ‘importare’ questo a mio modo di vedere: la valorizzazione del giovane a 360°.