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Trey Kell: “Mia madre, la più grande tifosa. A Milano l’adeguamento maggiore da fare riguarda la mentalità”

L’esterno americano con passaporto siriano parla su “La Repubblica - Milano”

Trey Kell: “Mia madre, la più grande tifosa. A Milano l’adeguamento maggiore da fare riguarda la mentalità”

L’ultimo innesto in ordine temporale dell’A|X Armani Exchange, Trey Kell, si apre a Luca Chiabotti su “La Repubblica - Milano”, rivelando innanzitutto il rapporto speciale con la madre anche per l’ambito cestistico: “Ho detto subito alla mamma, la mia più grande tifosa, che a Milano sarebbe stato diverso rispet­to alle altre squadre nelle quali ho giocato. Se­gue tutte le mie partite, ci sentiamo appena finiscono. Fino­ra, negli Stati Uniti, non poteva guar­darle in tv, segue le statistiche, poi
mi chiede ‘cosa è successo in quella giocata’, vuole sapere tutto”.

Successivamente, Kell ha raccontato del suo ambientamento nella nuova squadra: “Le cose stanno filando abbastanza lisce, tut­ti all'Olimpia stanno facendo un grande lavoro per mettermi a mio agio, fanni sentire come se fossi qui da inizio stagione ed essere me stes­so in campo. Conosco già la città, ci sono venuto qualche volta da Vare­se, mi piace e sono molto eccitato dal poter giocare in una grande squadra nella competizione più im­portante al mondo dopo la Nba. Credo che l'aggiustamento maggiore da fare a Mi­lano riguardi la mentalità, perché ovviamente all'Olimpia ho molti compagni che hanno scritto la sto­ria del basket europeo e non avrò sempre la palla in mano col compito di segnare molto come nelle mie pre­cedenti esperienze. Però non mi ri­tengo un giocatore egoista, sono sempre disponibile a riconoscere quando è il momento di sostenere al­tri compagni per vincere. All'Olimpia, fin da subito, non mi hanno imposto di fare solo determi­nate cose, vogliono che esprima quello che sono”.

Fuori dal campo, invece, Trey è un ragaz­zo tranquillo: “In America, quelli co­me me, li definiscono homebody. Mi piace stare in casa e, se non sono all'allenamento, mi vedrete in giro in rare occasioni. Passo molto tem­po a parlare con i miei familiari e i miei amici di San Diego. Ho sempre giocato là, l'università era a 5 miglia da casa. Così è stato particolannen­te diffìcile andare a giocare e vivere lontano. Ogni volta che lasci gli Stati Uniti devi misurarti con una cultura sempre differente, ma dal mio vec­chio coach, ai compagni, alla mia fa­miglia tutti mi seguono e sostengo­no sempre, non importa se in Cali­fornia o in Europa: sono il mio grup­po di supporto”.

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