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Courtside NBA - Chi sale e chi scende nella settimana

Uno sguardo alla situazione oltreoceano

Courtside NBA - Chi sale e chi scende nella settimana

Superato la pausa per l’All-Star Game e freschi dei 56 punti segnati nella notte da LeBron James (seconda prestazione della storia NBA per un giocatore di 37 o più anni, il primo è Kobe Bryant coi 60 punti nella gara di addio), rituffiamoci in piena regular season e vediamo chi sale e chi scende dopo l’ultima settimana di parte.

Chi sale: Boston Celtics – Los Angeles Clippers

Boston Celtics: 9 successi nelle ultime 11 partite, 13 nelle ultime 15, un quinto posto nella Eastern Conference che dista però appena una partita e mezza dalla coppia Chicago Bulls-Milwaukee Bucks e 2 dai Philadelphia 76ers. Il 2022 ha ridato alla lega dei Celtics protagonisti e finalmente vincenti dopo la burrasca di inizio stagione, i problemi in spogliatoio e una sempre più complessa convivenza tecnica tra le due star della squadra, JaylenBrown e Jayson Tatum, e il resto del gruppo. Partendo dalla metà campo difensiva, Ime Udoka ha da subito dato una forte impronta alla squadra in attesa di poter disporre del roster intero per provare a risolvere i problemi in attacco che ormai da più di qualche anno impediscono la definitiva esplosione di Boston. Settimana dopo settimana poi, recuperati gli infortunati e potendo contare sull’innesto fin troppo sottovalutato di Derrick White a ridosso della trade deadline, i Celtics sono prepotentemente risaliti non superando semplicemente la crisi e gli scarsi risultati conseguiti fino a dicembre, ma guadagnando diverse posizioni anche nella considerazione degli addetti ai lavori, che oggi vedono nei bianco-verdi una possibile mina vagante della sempre più competitiva Eastern Conference in cui si profila una lotta serrata tra almeno 6 team, includendo oltre ai citati Bucks, 76ers e Bulls anche gli Heate i Nets, in attesa di vederli con Ben Simmons. Come detto, l’inversione di tendenza di Boston è partita dalla difesa, doveUdoka ha costruito le sue fortune ovviamente sul quintetto composto da Marcus Smart, Jaylen Brown, Jayson Tatum, Al Horford e Robert Williams III, che tra le lineups con almeno 250 minuti giocati ha per distacco il miglior defensive rating della lega (punti subiti su 100 possessi) a quota 88.8, e il miglior net rating(27.0), vale a dire il differenziale tra rendimento offensivo e difensivo. Detto del ruolo fondamentale di Derrick White (a cui si unisce la sapiente aggiunta di Daniel Theis a dare manforte a un reparto lunghi che contava il solo Enes Kanter come riserva) che ha dato alla squadra playmaking anche in uscita dalla panchina in netta controtendenza rispetto a quel Dennis Schroder eccellente scorer ma poco in grado di coinvolgere i compagni e dare equilibrio all’attacco, a dare ragione al lavoro certosino di Udokasono innanzitutto i numeri, che denotano un trend positivo evidente: a ottobre i Celtics avevano un offensive rating di 103.5, salito a quota 107.2 a novembre e migliorato ogni singolo mese fino al 116.5 con cui la squadra ha chiuso il mese di febbraio. Le fatiche nella metà campo difensiva sono state convertite in contropiedi (dai 7.7 punti a partita da situazioni di transizione si è passati ai 9.3 di novembre, 10.9 di gennaio fino ai 13.7 con cui Boston ha chiuso il mese di febbraio) e più in generale nella ricerca di conclusioni figlie di energia e ritmo anche nell’attaccare maggiormente il ferro, ricorrendo meno al tiro da 3. Tiro da tre in cui Grant Williams e Payton Prithcard possono definirsi gli unici reali tiratori a disposizione di Udoka, che ha quindi fatto di necessità virtù. A completare l’opera, la possibilità di annoverare ormai tra i big della squadra non solo Marcus Smart, presenza di spicco nello spogliatoio ma anche fattore offensivo in questo 2022) ma anche il lungo Robert Williams III, che tra una difesa al ferro sempre più determinante e la capacità di smazzare assist dal post-alto sta diventando sempre più insostituibile nelle gerarche della squadra. Oggi Boston unisce alla concretezza sulle due metà campo una sensazione del tutto nuova di affiatamento e compattezza di un gruppo apparso troppe volte scollato e disunito, e complice anche un calendario decisamente più abbordabile sembra aver guadagnato fiducia e consapevolezza per dire la sua anche in una Conference sulla carta proibitiva.

Los Angeles Clippers: volendo scegliere un team della Western Conference tra quelli in salita/risalita, sarebbe stato fin troppo semplice optare per i già citati Memphis Grizzlies, attualmente secondi, o per i sorprendenti Denver Nuggets che nonostante le assenze vengono tenuti a galla da Nikola Jokic, o ancora dei Dallas Mavericks che sembrano aver tratto addirittura giovamento dalla trade Porzingis-Dinwiddie e Bertans, che ha dato a Luka Doncic ulteriori tiratori sugli scarichi e manforte in attacco. Eppure, tra le tante superpotenze dell’Ovest ammirare all’ottavo posto e saldamente in controllo di una posizione Play-in c’è una squadra che da inizio anno gioca senza il suo miglior giocatore, che ha perso prematuramente la seconda star della squadra, e che settimana dopo settimana si lecca le ferite per un’infermeria sempre più piena dove, poco dopo essere arrivato via trade dai Blazers, siede attualmente anche Norman Powell. I Los Angeles Clippers di Tyronn Lue, in striscia aperta di 5 successi consecutivi tra i quali spicca quello nel derby contro i più quotati cugini dei Lakers, sono una delle più sorprendenti note di questa stagione. Mai al completo, totalmente in balìa della sfortuna, il roster che doveva essere di Kawhi Leonard e Paul George si è riscoperto cooperativa da canestri ben oltre i singoli, con Reggie Jackson a guidare un folto gruppo di giocatori in doppia cifra di media (Marcus Morris, Luke Kennard, Terance Mann, Ivica Zubac e Eric Bledsoe appena sotto a 9.9 punti a partita) e più in generale una squadra che si è dimostrato molto più profonda di quanto gli infortuni non facessero pensare, con 12 uomini sistematicamente coinvolti da Lue che nonostante questo è riuscito ad allestire una difesa tra le migliori della lega (settimo defensive rating) e capace di sopperire a uno dei peggiori attacchi in circolazione. Nulla di eclatante se si pensa che a questo team manca la coppia di star che dalla scorsa estate rende possibile sognare in grande in casa Clippers. Oltre l’ottava piazza, oltre le 5 vittorie consecutive, il lavoro che lo staff tecnico sta facendo quest’anno consentirà quasi certamente sin dalla prossima stagione di raccogliere dei dividendi di altissimo valore. Los Angeles è storicamente la città dei Lakers, ma le mosse messe in piedi dai “cugini”, grazie a un coach troppe volte sottovalutato ma in grado di toccare le corde giuste di ogni singolo giocatore a disposizione, stanno costruendo qualcosa da non sottovalutare. Nel frattempo, per quest’anno, i Clippers si prendono lo scettro di squadra sorpresa al netto delle assenze.

Chi scende: New York Knicks-Houston Rockets

New York Knicks: non c’è ancora la matematica a condannarli, ma i Knicks versione 2021-22 stanno viaggiando ormai a grandi falcate verso una stagione che, considerate le aspettative e il risultato dell’anno scorso, non può che definirsi fallimentare. Gli innesti estivi di Evan Fournier e Kemba Walker, con quest’ultimo messo praticamente fuori squadra dopo gli svariati tentativi di coinvolgerlo in maniera funzionale in un roster che fino a pochi mesi fa aveva una fortissima identità difensiva ma oggi sembra aver perso ogni sua certezza. Lo scollamento di un gruppo che sembra prima di tutto aver perso tutto l’entusiasmo costruito appena un anno fa si palesa in maniera inequivocabile nel numero di partite perse dopo essersi trovati addirittura un vantaggio in doppia cifra (1 vittoria a fronte di 9 sconfitte nelle ultime 10 occasioni), a testimonianza di una scarsa compattezza che emerge finanche in situazioni di consolidato controllo del match, come avvenuto due notti fa nella partita persa sulla sirena contro i Phoenix Suns. Difficile identificare uno e un solo motivo del crollo verticale di questa squadra, ma il tentativo di aggiungere a un team che ha fatto della difesa il suo punto forte un minimo di imprevedibilità offensiva che in qualche modo potesse offrire un’alternativa al gioco di Julius Randle (altro X-Factor in negativo di questo 2021-22) può definirsi fallito a tutti gli effetti. I Knicks sono riusciti persino a peggiorare finora il 23esimo attacco della lega di un anno fa, scendendo al 25esimo posto attuale ma crollando al contempo in difesa, dove al terzo defensive rating è seguito il sedicesimo attuale. Estendendo lo span agli ultimi 2 mesi quasi, dal 17 gennaio a oggi New York ha vinto appena 3 partite, e con non solo i Playoffs ma anche i Play-in ormai irraggiungibili o quasi, è tempo di leccarsi le ferite e pensare al prossimo anno. La certezza si chiama RJ Barrett, ma attorno a lui c’è da risolvere una serie di enigmi, tra i quali anche la posizione di Tom Thibodeau, artefice della rinascita di un anno fa ma finito oggi sul banco degli imputati.

Houston Rockets: come detto in passato, non è semplicissimo bocciare per le sconfitte che arrivano in successione una squadra che sin da inizio anno aveva manifestato a chiari intenti la volontà di puntare al draft e ambire a una stagione “zero” agli albori della ricostruzione avviata nel post James Harden. Le 12 cadute in serie dei Rockets però non possono che accendere una spia e condurli dritti in questa rubrica con un interrogativo già proposto per altre squadre che alla ricerca della scelta più alta del prossimo draft abdicano rispetto a ogni chance di costruire una cultura vincente: siamo sicuri che tra il tanking e la ripartenza tecnica basterà semplicemente “cambiare input”? Se è vero che vincere aiuta a vincere, il “perdere e perderemo” non conduce sempre a risultati positivi. Houston ha imboccato la via della ricostruzione più cinica e dolorosi per certi versi, e tra i tanti bagliori di luce che il talento di Jalen Green, soprattutto post All-Star Game, e le giocate di autentica classe di Alperen Sengun emanano, c’è da interrogarsi su come pescata la giusta addizione in estate (si chiami essa Holmgren, Banchero, Ivey o Williams) questo gruppo saprà “decidere” da un momento all’altro di puntare almeno ai Play-in e abbandonare la sistematica ricerca della sconfitta. Un equivoco, non il primo e sicuramente non l’ultimo, che progetti in stile “The Process” portano inevitabilmente con loro.

 

 

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