Di Filippo Stasi
Dopo esser stato protagonista nel successo dell’Openjobmetis Varese con 21 punti, il giovane Tomas Woldetensae è il protagonista dell’appuntamento settimanale di “5 domande a…”
Varese sta vivendo un momento di forma straordinario, avendo colto ben 6 vittorie nelle ultime 7 gare. Fino a poche giornate fa, eravate invischiati in piena lotta salvezza, mentre oggi siete addirittura a ridosso dalla zona playoff! Sei arrivato nel pieno di questo momento d'oro: riesci già a individuare cosa - dal tuo punto di vista - rende speciale e difficilmente arginabile questa ‘nuova’, (con)vincente versione della Openjobmetis?
Sono arrivato a Varese circa un mese fa, quando la squadra già aveva iniziato a risalire rabbiosamente la classifica. Ogni tanto i miei compagni si interrogano ancora su cosa non abbia funzionato negli scorsi mesi, perché l’impegno con cui si sono allenati è stato sempre encomiabile e posso confermare che sono tutti ragazzi volenterosi, maturi, che in preparazione alla partita lavorano con la stessa intensità feroce che spesso poi emerge nel giorno della partita. Alla fine - citando una delle canzoni di tendenza del momento - penso sia solo una questione di chimica. Quindi non dei singoli elementi in sé e per sè, ma di come questi riescono a esprimersi. Sicuramente il coach in questo processo ha svolto la parte del reagente, ha innescato qualcosa di significativo e l’entusiasmo che ha riacceso in città sta lì a dimostrarlo.
Nel giro di poche settimane sei già riuscito a farti un nome nella massima serie italiana: sei stato inserito infatti nel miglior quintetto del 21° turno di campionato avendo messo a segno 21 punti nella sfida vinta contro la Vanoli Cremona. E sullo stesso su coach Johan Roijakkers si può fare un discorso simile: arrivato senza grande appeal, da settimane sta ottenendo apprezzamenti non solo per i risultati, ma soprattutto per come questi stanno arrivando. Parlaci sia di te che di lui, come vi piace lavorare in campo?
Mi sono sempre ispirato ai più grandi, sin da piccolo. In particolare, Kobe Bryant è stato indirettamente il mio mentore, per la mentalità vincente che ha sviluppato e trasmesso a me e a tanti appassionati nel mondo. Questo per quanto riguarda la mia etica del lavoro personale, mentre pensando in maniera estesa mi piace vedere una pallacanestro che coinvolga tutti i membri della squadra, e di conseguenza tutto l’ambiente che le sta attorno. Questa prerogativa la riscontro nel basket di coach Roijakkers, che come avrete notato non bada né allo status o alla carta d’identità di un giocatore: se vede che qualcuno non si sta allenando al 100% non esita a mettere in campo degli Under 20 come Librizzi e Virginio, che peraltro stanno rispondendo molto bene. È un allenatore meticoloso, che non tralascia dettagli e anzi spinge noi giocatori a curarli con la stessa attenzione che ci dedica lui. Sta aiutando il gruppo a migliorare alzando costantemente l’asticella; a questo livello credo sia la sola ricetta possibile per fare bene. Io sono pronto a rendermi utile alla squadra e al coach in ogni modo pur di continuare a vincere.
Prima della chiamata della Openjobmetis Varese, hai iniziato la tua prima stagione da professionista in Serie A2 a Chieti. Precedentemente, a livello giovanile, hai trascorso diversi anni negli USA, studiando e giocando tra Florida, Iowa e Virginia. Cos’hai portato nel tuo bagaglio personale al ritorno dagli States, umanamente e sportivamente?
Mi sono trasferito negli Stati Uniti che ero molto giovane e questo credo mi abbia spinto a crescere in fretta come individuo. Vivere in un ambiente stimolante e ricco di opportunità come quello che ho trovato oltreoceano aiuta poi sicuramente a credere con più convinzione in quello che stai facendo. L’American Dream non è solo un motto, è tangibile, lo vedi raggiungibile e di conseguenza ti viene da metterci tutto te stesso per realizzarlo. Gli americani in questo sono dei capitani. Mentalmente hanno ben chiaro qual è il percorso da fare per avere successo, in ogni ambito. Sicuramente mi porto dietro proprio il loro mindset, mentre a livello sportivo la tecnica l’ho imparata e sviluppata meglio in Italia.
Le tue origini sono eritree: quanto senti presente in te questo tratto culturale?
Sono figlio di genitori eritrei, sebbene sia cresciuto solamente con mia madre. Fu costretta a fuggire dalla guerra civile che stava impazzando proprio in Eritrea, diversi anni fa. E purtroppo di guerre ne continuano a scoppiare, non solo in Ucraina, ancora oggi… Io comunque sono nato a Bologna, dove mia mamma si stabilì una volta messasi al sicuro. Sono italiano a tutti gli effetti, ma parlo anche eritreo e mi sono recato più volte, da piccolo, nel mio paese di origine, una volta che la situazione si era tranquillizzata ovviamente. Scoprire le radici della mia famiglia, constatare coi miei occhi come si vive lì, mi aiuta a restare sempre umile e ad essere grato di ciò che ho, facendone il miglior uso possibile. Delle persone che ho conosciuto lì invece ammiro la tenacia. Nel mondo dello sport l’Eritrea è un paese che si distingue prevalentemente per la resistenza nella corsa su distanze lunghe, ma parliamo di un popolo abituato a resistere nel senso più ampio del termine. Sono tanto orgoglioso delle mie origini e non a caso sto progettando di tornare presto a visitare il Paese e i dintorni; poi l’Eritrea è affacciata sul Mar Rosso, presenta dei paesaggi naturali davvero splendidi…
Continuando a scavare alla scoperta delle tue radici, sappiamo del legame affettivo profondo che hai con tuo nonno. Non per caso, lo porti sempre con te quando scendi in campo. Ti va di approfondire in merito al rapporto che hai con lui?
Da qualche tempo nonno è passato a miglior vita, ma resterò sempre grato per quello che ha fatto per me. Chiarisco che non si tratta di un legame di sangue, perché mio nonno di cognome faceva Benazzi e - come si può intuire - era chiaramente italiano. La sua è stata una figura decisiva per me perché è stato capace di instradarmi come meglio non si poteva, attivandosi in prima persona al fine di garantirmi tutti gli strumenti adatti a costruirmi il miglior futuro possibile. Devo a lui idealmente il fatto di essere diventato professionista: nonostante di basket non conoscesse nulla, si è sempre adoperato per contattare persone e aiutarmi a trovare una soluzione valida a ogni evenienza. Per questo ho deciso di far inserire sulla canotta da gioco, davanti al mio cognome, la lettera B, l’iniziale di quello del nonno.