Aprendosi a Giuseppe Sciascia su “La Prealpina”, il coach dell’Openjobmetis Varese, Matthew Brase, ha parlato di come si è concretizzato il suo approdo a Varese: “Avevo una buona situazione a Portland, ma quando ho parlato con Luis Scola e Mike Arcieri mi hanno prospettato la possibilità di tornare a praticare lo stesso basket di quando ero a Houston ed ai Rio Grande Valley Vipers. Più ci parlavo e mi convincevo: ho lavorato come assistente NBA per diverse stagioni, l'opportunità di tornare capo allenatore e lavorare e giocare nella maniera che preferisco era ghiotta. Ho perso qualche notte di sonno, però ritengo che confrontarsi con le sfide fuori dalla propria comfort zone e pensare fuori dagli schemi sia il modo per provare a crescere”.
L’Openjobmetis ricorda gli allora Houston Rockets di James Harden, caratteristici per il loro tiro da tre punti e un ritmo impresso alla partita molto alto: “La NBA è un altro mondo ad iniziare dai budget. Ma noi cerchiamo di creare una cultura in funzione di quello che ha senso per noi. Il nostro stile di gioco non è l'unico possibile, ma è quello che è più adatto al nostro parco giocatori. È chiaro che alle spalle c'è un lavoro di selezione: Brown e Johnson già conoscevano me e il sistema, tanti ragazzi però non li avevo mai allenati ma hanno sposato la causa con grande disponibilità. Qui siamo tutti sulla stessa pagina, il gruppo è fantastico perché lavora con il massimo dell'entusiasmo”.
L’ambientamento nella città lombarda procede a gonfie vele: “Varese è un posto fantastico dove vivere e lavorare: la città è bella e godibile, mi trovo benissimo anche al di fuori del campo. Il tempo per girare non è tantissimo perché il lavoro del coach non si esaurisce solo con l'allenamento quotidiano: bisogna pensare a preparare le sedute e vedere i video. Però c'è modo per girare e visitare una zona che offre tante attrazioni”.
Infine, Brase ha parlato dei suoi modi pacati nell’approccio con i giocatori e la panchina, mai sopra le righe: “È quello che ho imparato da mio nonno Lute Olson: "Non si insegna col tono di voce". E lo stesso approccio lo aveva Mike D'Antoni. Io provo a dare loro dei suggerimenti, piccole correzioni: "Hai visto questa situazione? Pensa a questo". Mettere pressione non aiuta, e allo stesso modo non aiuta dare troppe informazioni, che rischiano di fare pensare troppo e rallentare i giocatori sul campo”.