Dan Peterson ha allenato l’Olimpia Milano per nove stagioni vincendo quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Korac, due Coppe Italia. Nella stagione 1986/87 l’Olimpia ha realizzato il cosiddetto Grande Slam, assicurando titolo europeo, titolo italiano e Coppa Italia. Peterson è nato il 9 gennaio 1936, la stessa data di fondazione del club. L’Olimpia he deciso in suo onore di ritirare appunto la maglia numero 36. Ecco la sua storia a Milano.
Dan Peterson arrivò in Italia, a Bologna, quasi per caso: il prescelto della Virtus era il coach di origini siciliane Rollie Massimino, ma questi venne chiamato dalla Villanova University, dove nel 1985 avrebbe vinto il titolo NCAA, e si tirò indietro all’ultimo momento. La Virtus voleva lo stesso un americano. Richard Kaner, agente vecchio stampo, molto attivo a quei tempi, un grosso nome, propose Peterson che era libero. Fu Chuck Daly, che era stato all’università della Pennsylvania e ai 76ers (successivamente due titoli NBA con Detroit e l’oro olimpico 1992 con il Dream Team) a segnalare Peterson a Kaner durante una Final Four NCAA, il luogo in cui tutti gli allenatori americani convergevano spesso per fare mercato. La Virtus si fidò di Kaner e Peterson accettò la proposta. Fino a quel momento aveva avuto una carriera atipica: aveva allenato da capo allenatore un college di terza divisione, McKendree, e come assistente anche a Michigan State sotto Forddy Anderson, poi era stato eccellente coach dell’università del Delaware. Al termine di quella esperienza, era diventato il coach della Nazionale cilena consegnandola ai migliori anni della sua storia. “Da americano facevo tutto a cento all’ora, loro facevano tutto a due all’ora e un giorno il presidente mi chiamò e mi diede una lezione di vita: Dan, tu vai a cento, noi a due, ora andiamo a cinquanta all’ora e nessuno è contento”, dice. Adattarsi al contesto, all’ambiente: questa era stata la lezione, che il Coach mise a frutto a Bologna.
Per cinque anni svolse un grande lavoro a Bologna vincendo anche uno scudetto e consegnando al suo ex giocatore Terry Driscoll la squadra che avrebbe vinto altri due scudetti dopo la sua partenza. Il primo fu contro il Billy Milano in finale. La Banda Bassotti. La squadra di Mike D’Antoni. Fu quello l’anno in cui Mike esplose e diventò Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Successe a Roma, contro la Stella Azzurra di un tecnico emergente di nome Valerio Bianchini: D’Antoni rubando palla dopo palla riportò l’Olimpia in partita e la condusse alla vittoria. Era nata una leggenda. In semifinale, il Billy vinse due volte a Varese: in Gara 3, Peterson utilizzò i cinque uomini del quintetto per 40 minuti filati. Finirono tutti e cinque la partita con quattro falli. D’Antoni playmaker, Sylvester e Kupec erano gli esterni, Gallinari e Ferracini i lunghi. La panchina era composta dai due Boselli, Francesco Anchisi, più Paolo Friz e Valentino Battisti. “Battemmo Varese in Gara 3 con sei canestri dall’angolo di Kupec. Giocava il pick and roll con D’Antoni, eseguiva un taglio a banana e riceveva in angolo. Non sbagliò mai”, racconta Peterson. Anche se in finale l’allora Sinudyne si rivelò troppo forte per Milano, la “Banda Bassotti” aveva sfondato. “Ogni partita ho avuto la sensazione che facessimo più di quanto potevamo. Eravamo aggressivi, mordevamo le caviglie a tutti. Sono orgoglioso di quella squadra. Kupec anche. D’Antoni. Tutti sono orgogliosi di aver giocato in una squadra che pure non vinse”, ricorda Peterson.
Il Coach, a Bologna aveva conquistato tutti con i pantaloni a zampa d’elefante, il rapido apprendimento della lingua, il rispetto della cultura locale e la mente aperta. Non fece il colonizzatore ma assorbì tutto dell’Italia. Quando Milano chiamò era già un coach di successo, “ma per me, americano, andare ad allenare nella New York d’Italia, non aveva prezzo”. Toni Cappellari, trevigiano alla corte di Bogoncelli, una carriera da allenatore abortita presto per diventare manager portò Peterson al cospetto del grande padrino Bogoncelli. Peterson pensava di trovarlo a Milano invece i due presero l’aereo e volarono a Parigi.
“Bogoncelli mi conquistò quando chiedendomi se immaginassi perché mi avesse scelto menzionai il lavoro di Bologna eccetera… Lui disse no, Peterson, l’ho scelta perché lei mi ispira fiducia”. Peterson veniva dalla scuola dell’avvocato Gianluigi Porelli a Bologna e si ritrovò a lavorare per Bogoncelli di cui sarebbe stato l’ultimo allenatore.
“Il mio primo giorno da allenatore di Milano – racconta Peterson – lo ricordo bene perché ero al Palalido con i miei assistenti Guglielmo Roggiani e Franco Casalini. Vidi i giocatori entrare uno alla volta. Tutti giovani. Casalini mi chiese se volessi cominciare. Dissi: “Aspettiamo che siano tutti”. Eravamo tutti. Non mi ero reso conto di quanto fossimo giovani”. Secondo la stampa, Milano avrebbe lottato per non retrocedere. Invece arrivò in finale: era la squadra di D’Antoni, dei giovani, di Mike Sylvester italiano e di CJ Kupec. Ma l’anno seguente, cresciute le aspettative, la squadra si fermò in semifinale con Cantù dopo aver rischiato di finire fuori al primo turno contro Forlì. Sylvester e Kupec, che non erano mai andati d’accordo, vennero alle mani proprio alla vigilia dei playoffs. Ci fu un fallo di Kupec su Sylvester, banale. CJ la prese male, protestò con Franco Casalini e spintonò Sylvester per mostrargli cosa fosse un “vero fallo”. Mike non era un tipo facile. Volò un pugno. Alla fine, tutto venne circoscritto, ma solo fino al termine della stagione. Peterson abbozzò sul momento ma decise che a fine anno sarebbero andati via entrambi.
Dopo la Banda Bassotti e la delusione del 1980, l’Olimpia alzò notevolmente il livello del proprio roster portando a Milano John Gianelli. Quello fu l’anno maledetto della semifinale scudetto persa contro Cantù al Palazzone di San Siro con Antonello Riva che a 19 anni segnò 32 punti e pilotò la Squibb in finale e quindi allo scudetto contro la Virtus Bologna. A quei tempi, il regolamento prevedeva che, nelle situazioni di bonus, si potesse rinunciare a tirare i liberi per eseguire la rimessa. Potevi farlo anche in eterno. Peterson non credeva fosse una buona tattica. Mandava i suoi in lunetta, a prescindere. Lo fece anche quella sera. I liberi non entrarono. Cantù rimontò e vinse dopo due tempi supplementari. “Una sconfitta che mi fa ancora male – ammette – Ho sbagliato io”.
Ma in estate, Milano realizzò due tremendi colpi di mercato: Dino Meneghin e Roberto Premier. Il primo si infortunò subito, il secondo cominciò una lunga battaglia con Coach Dan Peterson con tema la difesa. E Peterson spremeva D’Antoni come un limone: mai un minuto di riposo. E mai un tiro in meno dei 12 che pretendeva per combattere l’indole altruista del suo playmaker. Il Billy ebbe un avvio di stagione catastrofico, a Pesaro contro il maligno bomber Dragan Kicanovic, l’Olimpia venne travolta, derisa, sbeffeggiata. 45 punti di scarto. Ma come avrebbe sempre fatto in carriera, D’Antoni annotò e non dimenticò. Al ritorno di Meneghin, la squadra si mise a giocare con le sue due torri Gianelli (più efficace al secondo anno a Milano) e appunto Meneghin.
L’Olimpia arrivò in finale nel 1982, sbancò Pesaro e poi resse l’urto in Gara 2 a San Siro. D’Antoni devastò Kicanovic – che il coach croato Petar Skansi tenne in panchina per tutto il primo tempo di Gara 2, una scelta che ancora oggi non è mai stata chiarita del tutto – con la sua difesa. Gianelli eseguì la stoppata decisiva su Mike Sylvester, un ex, e lo scudetto tornò a Milano. “Ricordo che Gianelli arrivò a Milano a poche ore dall’inizio del campionato – dice Peterson – e allora pensai di dovergli spiegare i nostri giochi. Ma come cominciavo a spiegare, lui anticipava le mie parole. Facevamo molte delle cose che aveva fatto nella NBA. Ed era abbastanza intelligente da ricordarle tutte”. Aveva solo un difetto: non credeva nella 1-3-1, la difesa che era il marchio di fabbrica di Peterson. “Diceva di non amare la zona e non riuscivo a spiegargli che non era una zona tradizionale. Poi in una gara di playoffs contro Mestre, lui esce per falli a metà ripresa, quando siamo sotto nel punteggio. Io chiamo la 1-3-1: c’era D’Antoni, c’era Gallinari, c’erano solo giocatori che credevano. Rimontammo e vincemmo. A fine partita mi disse che la zona aveva funzionato”. Peterson colse la palla al balzo: “John, non è una vera zona e funziona se chi la applica crede che possa avere successo”. Gianelli riconobbe il messaggio dell’allenatore: “Coach, adesso ci credo anche io”.
Nei due anni successivi, l’Olimpia perse quattro finali su quattro: contro Cantù in Coppa dei Campioni di uno, dopo una furiosa rimonta spezzata nel convulso finale, in campionato contro Roma in tre partite, nella serie in cui Peterson utilizzò in Gara 2 i 208 centimetri di Gallinari sui 183 di Larry Wright bloccando l’avversario e vincendo la partita ma non il titolo; nella Coppa delle Coppe del 1984 contro il Real Madrid, ancora di un punto, giocando senza un americano perché Earl Cureton scappò dopo poche partite e Antoine Carr non era utilizzabile; infine in campionato contro Bologna, ancora in tre partite, giocando l’ultima senza lo squalificato Dino Meneghin.
Peterson avrebbe allenato l’Olimpia per altre tre stagioni, ritirandosi a 51 anni (salvo il breve ritorno nella stagione 2010/11), ma furono i tre anni migliori. Nel 1985, arrivò Joe Barry Carroll, Peterson tagliò un americano per la prima e unica volta in carriera, sacrificando Wally Walker all’ultimo momento per proteggere Russ Schoene che l’avrebbe ripagato trascinando la squadra alla vittoria in Coppa Korac contro Varese. In campionato, con Carroll a dominare, l’Olimpia vinse i playoff da imbattuta. L’anno successivo, in Coppa dei Campioni non riuscì ad arrivare in finale, beffata dalla classifica avulsa, ma vinse la Coppa Italia e lo scudetto contro Caserta usando un 20enne americano tuttofare, Cedric Henderson. Nel 1987, arrivò il Grande Slam. In tre anni sette trofei vinti.
La strada verso il Grande Slam del 1987 cominciò con una salita ripidissima, attraverso un’impresa che sarebbe entrata nella storia. Per vincere la Coppa dei Campioni, la Tracer doveva accedere al durissimo gironcino finale a sei squadre dopo un turno preliminare che a quei tempi era considerato quasi una formalità. Ma quell’anno non lo fu. L’Olimpia venne abbinata all’Aris Salonicco. “A quei tempi non c’era lo scouting di adesso, le informazioni erano frammentarie”, ha ammesso nel suo libro Franco Casalini, assistente di Dan Peterson ai tempi. In altre parole, l’Aris venne in parte sottovalutato. Poi era fine ottobre e Milano non era in forma.
Fatto sta che nella bolgia di Salonicco, l’Olimpia venne spazzata via, perse con uno scarto di 31 punti che suonava come una condanna. 98-67. Nick Galis, il primo grande giocatore greco, di scuola americana, nativo del New Jersey, laureato a Seton Hall, fece 44 punti. Per lui fu una sorta di introduzione nell’olimpo del basket europeo: nel corso della sua carriera Galis, con il compagno di avventure Panagiotis Giannakis, avrebbe portato la Grecia al titolo europeo e un anno dopo quella gara allucinante di Salonicco, l’Aris avrebbe giocato la semifinale ancora contro l’Olimpia. Quindi la squadra greca era a pieno titolo in grado di competere ai massimi livelli. Nessuno però avrebbe potuto immaginare una disfatta simile per una formazione come la Tracer che puntava dichiaratamente al titolo.
Sette giorni dopo il Pala Trussardi fu testimone di una delle più grandi imprese/sorprese della storia. L’Olimpia non giocò affatto con lo spirito di chi è rassegnato ad una clamorosa uscita di scena. Giorno dopo giorno, la sensazione che si potesse fare, senza alcuna spiegazione razionale, cominciò a serpeggiare. Dan Peterson indicò la strada: un punto al minuto e ce la faremo, non serve rimontare tutto in una volta. L’Olimpia giocò una buona partita offensiva ma soprattutto una grande partita difensiva, tenne l’Aris a 49 punti, vinse di 34, segnandone 83 e festeggiò in mezzo al campo come se la Coppa dei Campioni fosse stata vinta quel giorno. E forse fu davvero così.
Mike D’Antoni come aveva fatto in passato con Kicanovic o Petrovic, decise di sperimentare fino in fondo quanto forte fosse Galis. La sua difesa cancellò dal campo il Dio greco, come era soprannominato. L’Olimpia andò subito avanti di nove, poi l’Aris rientrò a meno quattro, all’intervallo Milano era a più 14, abbastanza da poter sperare, non abbastanza da sentirsi vicina all’impresa. Ma gradualmente arrivò l’allungo, l’Aris si bloccò, la difesa sporcava ogni possesso greco e dove non arrivava la lucidità arrivava il cuore. Sul meno 34, palla Aris, Mike D’Antoni forzò la palla persa di Galis. Peterson chiamò time-out ma con 23 secondi da giocare e D’Antoni in campo non c’era più modo di “perdere”. La gente a bordo campo, sugli spalti, esultava in una di quelle scene di giubilo che di tanto in tanto hanno costellato la grande storia dell’Olimpia. Nell’immediato dopo gara, Peterson afferrò McAdoo e gli disse “Hai visto che miracolo abbiamo fatto?”. “Coach, quale miracolo? Eravamo tutti sicuri di farcela”. “Sicuri?”. “Certo, abbiamo visto il nostro allenatore così calmo che non avevamo dubbi”. In realtà, Peterson era stato zitto una settimana ma solo perché era sotto shock. Dentro era tutto, ma non era sereno. “Bob dice che quella è stata la partita più fisica della sua vita e anche l’unica volta in cui ha pensato a stoppare ogni tiro, prendere ogni rimbalzo ma non a quanti punti avrebbe segnato e dice anche di non aver mai visto Meneghin così teso prima di una partita”, dice Peterson. Il 2 aprile 1987 a Losanna, contro il Maccabi, 71-69 il risultato finale, l’Olimpia completò il lavoro convalidando l’impresa compiuta a Lampugnano contro l’Aris. In seguito, vinse anche lo scudetto contro Caserta rimontando in Gara 3 da meno 18. Mike D’Antoni centrò i due tiri liberi della vittoria. Il tiro conclusivo di Nando Gentile fu respinto dal ferro.
A fine stagione, Dan Peterson decise di ritirarsi. Aveva tanti interessi fuori del campo, anche qualche piccolissimo problema di salute, forse era stanco mentalmente. “Forse se avessimo aspettato un po’ di tempo, forse avremmo fatto le cose diversamente”, ammise in seguito Peterson. “La vittoria della Coppa dei Campioni penso abbia convinto Peterson che era giunto il momento di smettere”, avrebbe detto Mike D’Antoni. “Diceva da anni di volersi ritirare – fu il racconto del fedele scudiero Franco Casalini – ma alla fine non si ritirava mai. Quell’anno, mi chiamò al telefono e con due parole capii che era vero”. “Franco, adesso sono cazzi tuoi!”