C’è soddisfazione ma soprattutto grande orgoglio negli occhi e nelle parole di Stefano Bossi quando si parla di Trieste, città in cui, il playmaker classe 1994, è nato, cresciuto e oggi vive difendendo i colori della Pallacanestro Trieste, squadra che domenica, anche grazie alla sua miglior gara in carriera in Serie A (16 punti e 3 assist in 16 minuti), ha compiuto un’importante passo verso la salvezza sconfiggendo la Tezenis Verona all’Allianz Dome.
Al primo anno nel massimo campionato italiano dopo una lunga militanza in A2 che l’ha portato a vestire le casacche di Udine, Trento, Trapani, Assigeco Piacenza, Orzinuovi e Urania Milano, Bossi non ha vissuto una stagione sotto le luci dei riflettori (3.5 punti e 7.5 minuti di media in 18 apparizioni totali) ma, quando più contava per il suo team, non si è fatto trovare impreparato.
Sfruttando infatti il duro lavoro svolto in palestra sempre con grande impegno e dedizione, nell’ultimo fine settimana il regista giuliano ha colto al volo l’opportunità datagli da coach Legovich riuscendo, con la performance e la vittoria prodotte contro la Scaligera, nel duplice risultato di scrivere una delle pagine più belle del suo percorso da professionista e, parallelamente, rendere ancora più forte il legame con la gente e una piazza a cui egli è legato da un filo allo stesso tempo invisibile ma molto tangibile.
La triestinità fa leva su un sentimento e un senso d’appartenenza che, come lui stesso ha spiegato, non si tramandano e sono difficili da spiegare a chi viene da fuori: nonostante questo, nelle “5 domande a ...” di questa settimana, noi abbiamo comunque provato a indagare meglio di che cosa si tratti chiacchierando col numero 3 biancorosso di luoghi, emozioni, compagni e allenatori ma anche, più in generale, della sua esperienza di vita che l’ha portato a ricevere (e oggi anche a dare) consigli importanti.
Ci racconti le emozioni della gara di domenica contro Verona? Hai qualche aneddoto?
L'emozione è stata incontrollata, senza senso, semplicemente perché è capitato che nella partita più importante per noi, l'ultima in casa della stagione, abbia realizzato sostanzialmente la mia miglior gara di sempre. La cosa curiosa, se vogliamo, è che quando a 21 anni avevo portato Trieste, da playmaker titolare, in finale di A2 contro la Virtus non avevo giocato (per motivi anche extra contrattuali) l'ultima partita in casa e così ho passato davvero tanto tempo a pensare a come sarebbe potuto essere giocarmi l’accesso alla massima serie in quel match. Per me quindi, quello di domenica, è stato un incontro in cui è come se avessi buttato fuori la voglia di giocare anche quella gara del 2017. Per il resto devo dire che l'impatto che la città ha sulla nostra squadra è pazzesco: quando la società e il team ne chiedono il sostegno, questa risponde sempre più che presente. Domenica c'erano 6000 persone, un ambiente da pelle d’oca. Appena entrati c'è stato un boato che non sentivo veramente da tempo perché l’ultima volta che l’arena era stata così piena era stata cinque anni fa. È stato proprio bello.
Che significa essere triestino? Cos’è la triestinità e più in generale cosa significa giocare per la squadra della tua città? Quali sono per te i cinque luoghi più significativi Trieste?
Secondo me ci sono alcune città, parlo di Trieste, Bologna e forse anche Cantù, che cercano (lo dico senza voler mancare di rispetto ad altre piazze), di trasmettere cosa significhi giocare per quel posto e quella squadra. La triestinità, parlando anche con quelli che sono stati qui prima di me (Pecile, Cavaliero...), è qualcosa che nessuno può insegnarti, passarti o conferirti ma è qualcosa che arriva negli anni e ti dà veramente un quid in più. Credo, a questo proposito, che la prestazione di domenica contro Verona sia stata condizionata tanto dal fatto che io mi senta parte di Trieste: al termine ho come avuto la sensazione di aver ricevuto la medaglia che attestasse la mia vera triestinità. È successo anche a Michele Ruzzier quando, a 23-24 anni, fece una partita stratosferica in A2 per salvare la squadra e, andando al di là delle sue potenzialità, venne consacrato come bandiera. Come lui, anche Cavaliero ha vissuto la stessa cosa facendo una partita sopra le righe a Casale per condurre la squadra in A1...è qualcosa che non è spiegabile a chi non è del posto. I miei cinque luoghi di Trieste? Sicuramente Piazza Unità d’Italia, poi l’Allianz Dome. Quindi direi la Barcola e in particolare i suoi scogli, quelli del famoso detto triestino “La vita che mi voio xe a Barcola su un scoio” (La vita che voglio è a Barcola su uno scoglio). Infine, indicherei Roiano che è il rione in cui sono cresciuto e via Locchi, la zona della storica palestra della Pallacanestro Trieste dove ci allenavamo prima che ci trasferissimo dove siamo oggi.
Cosa rappresentano coach Legovich, Deangeli e Ruzzier per te e tutto l’ambiente di Trieste?
Sono super amante dei numeri e dei dati e credo che in nessuno sport professionistico, nella prima categoria, ci siano tante persone nate, cresciute e militanti nella squadra della propria città quante ve ne sono qui. Noi siamo in quattro e costituiamo un nucleo davvero considerevole. Per me è qualcosa di grande valore. Il rapporto che ho con coach Legovich nasce il primo giorno del suo arrivo in Pallacanestro Trieste come viceallenatore nel 2015/2016, lui aveva ventidue anni e io, alla prima esperienza come playmaker titolare in A2, venti. Da lì è nato un rapporto di amicizia che poi per forza di cose, se si è al nostro livello, nel momento in cui uno indossa le vesti di capoallenatore tende a scindersi da quello professionale. Allo stesso modo, con Michele Ruzzier (giocatore con cui io ho fatto le giovanili) non c'è mai stata rivalità perché siamo due giocatori in parte diversi e poi perché c'è sempre stato rispetto reciproco e grande ammirazione. Proprio questo mi ha permesso di fare un’importane step di carriera quest’anno dove sono partito come playmaker di riserva, è arrivato lui (preso non per demeriti miei ma semplicemente perché si rappresentava un upgrade per la squadra), ho accusato inizialmente il colpo (son passato da giocare 30 minuti con Urania a non vedere più il campo) ma successivamente ragionando con onestà intellettuale (quindi riflettendo sul fatto che avessi davanti a me due tra i migliori playmaker del campionato, Davis e il regista italiano scelto da Bologna prima dell’arrivo di Hackett) ho capito che appena mi fossi fatto trovar pronto avrei trovato il modo di giocare. A differenza, dunque, di molti che tendono a vedere le rivalità tra i pari ruolo, io l’arrivo di Michele l’ho visto come un’aggiunta importante, un’aggiunta che, per osmosi, osservando tante situazioni di gioco, mi ha trasmesso ciò che gli ha insegnato Teodosic gli ultimi due anni a Bologna. Dal mio punto di vista, perciò, ho solo rispetto per la sua carriera e le sue qualità come anche, d’altra parte, per le scelte fatte da coach Legovich. Avrei anche potuto essere arrabbiato perché non giocavo ma, se anche Phil Jackson non riusciva a far ruotare nella stessa partita tre playmaker, che senso aveva esserlo con lui? Poi, nonostante questo, lui è riuscito a trovare comunque il modo per mettermi in campo qualche minuto riconoscendo come in allenamento mi sia sempre sbattuto e ci abbia sempre dato dentro.
Il tuo percorso ti ha portato ad approdare in Serie A quest’anno: che consiglio daresti agli under e ai giovani che oggi si trovano sulle panchine della Serie A?
Ai giovani direi di non focalizzarsi sul singolo evento ma cercare la costanza sul lungo periodo. Per spiegarla con termini e modi a me cari (quelli del mondo finanziario dove sono abilitato come consulente), il consiglio è quello di non impuntarsi su una singola oscillazione negativa (come può essere una brutta partita) ma sul percorso che, pur con le varie fluttuazioni del caso, in prospettiva va a crescere. Un ragazzo che è in Serie A a 20 o 23 anni ha la strada spianata, non deve fissarsi su una stagione andata male o una serie di partite storte. Io mi preoccuperei di più se il cammino intrapreso, nonostante le fisiologiche flessioni, non lo porti ad avere obiettivi raggiungibili l’anno o i due anni seguenti. Prendendo spunto poi dalla mia parabola qui, pur riconoscendo che è difficile sempre allenarsi bene quando magari non si gioca, mi sento di dire che è importante non avere rimpianti e dunque essere pronti nel momento in cui vieni chiamato a scendere in campo. Ecco la cosa più importante che posso pensare di dire ai ragazzi è quella di evitare di farsi trovare impreparati quando arriva il proprio turno. Noi giocatori, una specie particolare, spesso tendiamo ad addossare le colpe a qualcun altro: l’allenatore, quello che mi passa la palla, il canestro, la palla... anch'io ero così ma col tempo ti rendi conto che dipende sostanzialmente da te e capisci che il punto sta proprio nel saper cogliere le occasioni.
Hai studiato parecchio e sei un consulente finanziario: dove ti vedi quando avrai appeso le scarpette al chiodo?
Io ho iniziato e non ho mai smesso di studiare grazie ai miei genitori e sostanzialmente questa è la prima cosa che bisogna far capire ai ragazzi. Mi sono laureato in scienze motorie in ambito manageriale ma in seguito, grazie anche a mio padre e a quelle che sono state le mie guide, ho conosciuto una persona a Milano (prima di venire a giocare a Urania) che lavorava in ambito finanziario. Ho sempre avuto una natura orientata al discorso degli investimenti, fin da quando ero piccolo e iniziando a guadagnare i miei genitori (cosa non scontata) mi hanno fatto sempre mettere i soldi da parte...Ho fatto quindi un Master del Sole 24 Ore Business School in finanza dello sport e sponsorship e questo ha completamente cambiato la mia direzione che, prima ancora del procuratore, mirava alla gestione delle finanze dei giocatori. Entrato quindi in contatto con la persona che mi aveva affidato il tutor, ho passato l’esame di consulente finanziario e oggi, pur essendo già abilitato, sto continuando a formarmi così da esser preparato e pronto quando smetterò di giocare. Il suggerimento che do ai più giovani quindi è che, per come stanno cambiando le modalità di allenamento, c'è tanto tempo libero e impiegarlo nel giusto modo ti può consentire, un giorno, di non avere rimpianti.
Un domani quando avrò smesso di giocare mi vedo come guida per gestire ma anche più semplicemente per indicare a un ragazzo quello che può essere un percorso di carriera portando dati certi derivanti dal mio percorso, ovvero quello di una persona che non ha mai guadagnato cifre astronomiche, non ha mai fatto Eurolega o NBA, ma semplicemente è stata costante nell'allenamento, nella pianificazione finanziaria e nell’organizzazione dello studio. Queste tre direttrici parallele devono essere sempre presenti come, allo stesso modo, nella testa di tutti deve esserci un piano su cosa fare alla fine della carriera. Affermare questa cosa, essendo stato giocatore e relazionandomi con gente che parlerà la mia stessa lingua, credo possa avere una certa valenza.
Redazione - Golden Flamingo