Parlando a Walter Fuochi su “La Repubblica”, Marco Ramondino ha raccontato la sua carriera, indicando anche il preciso momento in cui ha scoperto di poter vivere di pallacanestro: “Non è che si sceglie, càpita. Ci si inciampa, benedetto quel giorno. Studiavo Economia e allenavo ragazzi, fu Capobianco a volermi con sé a Jesi. Dieci esami alla laurea, capii lì che non sarebbe più arrivata”.
Tortona riuscirà mai a sfondare nonostante la crescita graduale di una piazza comunque piccola? “Io sono felice di starci, in questa contraddizione, a condividere la voglia di salire di tutto l'ambiente. C'è ambizione, non presunzione, l'anno prossimo faremo una coppa europea, dopo avervi rinunciato quest'anno, per misurarci anzitutto con noi stessi, passati in 13 anni dalla Serie C alle semifinali scudetto, solo gli ultimi con Gavio. Del nostro patron si dice che potrebbe presentarsi sul mercato a chiedere i migliori. Quello che conosciamo noi resta la persona umile, realista, alla mano, che fa i passi secondo la gamba e con la quale ci confrontiamo nel rispetto delle reciproche autonomie. Tortona non può offrire ai giocatori gli stimoli della grande piazza, ma chi viene sta volentieri, il clima di famiglia paga”.
Che riflessione fa Ramondino in merito al premio di coach dell’anno appena conquistato? “Nessuna riflessione particolare, solo che questo è uno sport di squadra, e non ci fosse la squadra, che mi ha dato tanto, non ci sarebbero premi per il coach. A 40 anni passo per un allenatore giovane, ma Scariolo e Messina, vincevano uno scudetto a 29 o guidavano la nazionale a 33. Non mi chiedo se sono pronto per piani più alti, li vedo occupati da gente più brava di me, e oggi trovo perfetta questa dimensione di Tortona. Amo i cicli lunghi, i progetti da far avanzare e chiuderò a giorni la quinta stagione qui, con contratto fino al 2026, anche sapendo che ne basterà una sbagliata per uscire. È il mestiere. Ci si inciampa”.