Intervistato da Francesco Gottardi su “Il Foglio”, Michael Bramos ha ripercorso le emozioni del suo famoso tiro per la vittoria in Gara 5 di finale Scudetto del 2017 contro la Dolomiti Energia Trentino: “Abbracci, urla, corpi sudati che si allungavano verso di me. Perfino baci in testa. Ma soprattutto mani: tante da non poter vedere, mi toccavano e mi accarezzavano. Il giorno dopo mi ammalai. Febbre alta: a Trento, per gara-6, scesi in campo sotto antinfiammatori e strinsi i denti. Lo scudetto arrivò comunque. Lì per lì non mi resi conto di quel che avevamo fatto”.
A 36 anni Michael ha detto basta con il basket professionistico: “Non voglio diventare una reliquia vivente, relegato sul fondo della panchina. Per questo scelgo di smettere oggi. A modo mio: mentre garantivo ancora minuti di qualità. Ho aspettato il più possibile, a stagione finita, per dire stop. Ma al 95 per cento avevo già deciso l’estate scorsa: la conferma me l’hanno data il mio corpo e la mia famiglia”.
Ad aprile è nata anche la sua terza figlia: “E i due maschi iniziano a fare sport: hanno bisogno di un papà che vada a vedere le loro partite”.
Adesso Bramos è nel Kentucky, a casa sua: “Sono contento, zero ripensamenti. Mi prendo un anno sabbatico per recuperare la routine domestica che mi ero perso: forse allenerò le squadre scolastiche dei miei bambini. Niente di più, però. Cosa vedo, alle mie spalle? Un giocatore grato. Quando nel 2015 arrivai a Venezia, non sapevo granché della Reyer né della città: avevo solo ansia di ricominciare. E ripagare l’unica realtà che mi stava offrendo una chance”.
Bramos ha anche elogiato molto il Taliercio, quella che è stata la sua casa per molti anni: “Un’atmosfera mai vista. Dall’head coach all’ultimo dei magazzinieri, qui la cultura del lavoro si completa con amicizie durature. I cubetti di ghiaccio che ci lanciava Vidmar sotto la doccia. Ma anche i viaggi, le tante conversazioni profonde. E i passaggi di Julyan Stone: gli bastava uno sguardo per sapere che avrei segnato. Non vorrei dimenticare qualcuno”.