Intervistato da Daniele Cavalla nello speciale dedicato alla Frecciarossa Final Eight su “Torino Sette”, il settimanale de “La Stampa”, la leggenda Dino Meneghin ha raccontato dell’esperienza di esser stato protagonista di un documentario (che aprirà la settimana di Torino martedì 13 febbraio all’OGR): “All'inizio ero titubante. Avevo smesso di giocare da 30 anni, i più giovani non sapevano nemmeno chi fossi. Poi mi sono detto: è una buona occasione per parlare della pallacanestro in generale, di una pallacanestro che forse non c'è più, ma senza la quale non ci sarebbe il basket di oggi. Si parla di me, ma si parla anche dei miei compagni di allora, delle squadre che giocavano in serie A. Si possono vedere nei filmati d'epoca i ritmi di gioco, le divise, i palloni, gli schemi. È stata l'occasione di parlare a 360 gradi di pallacanestro. Non ci sono tutti i 28 anni della mia carriera, il film si ferma al 1987 con la vittoria della Coppa Campioni con Milano. Alla fine, è stato un bel modo per far vedere ai più giovani com'era quella pallacanestro e per risvegliare qualche ricordo nei più anzianotti”.
Cosa ha rappresentato per Meneghin il basket? “L'amore per il gioco è alla base, ma la carriera da professionista è molto di più. C'è lavoro, c'è sacrificio, rinunce, stili di vita. Tante regole e se non le rispetti non vai da nessuna parte. Ecco, credo sia soprattutto una questione di rispetto: per il gioco, per le regole, per gli avversari, per il pubblico".
Dino ha giocato fino a 44 anni, restando sempre al top: “Innanzitutto, ringrazio per il fisico che il buon Dio mi ha dato e per aver trovato grandi allenatori e grandi compagni e società che puntavano sempre a vincere e davano obiettivi ambiziosi. Gli stimoli sono fondamentali, soprattutto nei momenti difficili. Quando mi sono rotto il menisco ero preoccupato, ma alla fine conta il carattere, la voglia di rivincita e il sostegno che percepisci attorno a te”.