LIVORNO. Rodney Elliott in piedi sulla panchina, la fascia bianca stretta intorno alla testa, gli occhi spiritati, la grande mandibola che stritola quel chewingum quasi fosse un canestro su cui schiacciare, l'asciugamano in mano, sventolato come un bandierone allo stadio, dopo una penetrazione sgusciante di Bob Conley e un contropiede di Sambugaro.
Il pugno alzato di Adrian Autry verso il palazzo impazzito. I guizzi di Banchi in panchina, l'abbraccio, forte, fraterno, spontaneo, con Walter De Raffaele, lo scudiero utile e silenzioso, dopo l'annuncio della sconfitta di Imola. E poi il boato, liberatorio, del palasport, le seimila braccia al cielo, il popolo amaranto che come un fiume in piena si riversa sul parquet, lo invade, si stringe intorno ai propri beniamini, sente il cuore tremare, gode, come in una nottata di fuoco e di fiamme. Fotogrammi di un mercoledì sera fantastique, da chiudere a chiave nel cassetto dei ricordi. Bello come il mare, coinvolgente come l'amore, indimenticabile, come quella domenica di undici mesi fa, quando la Mabo (l'accoppiata tra il Basket Livorno e l'azienda aretina ha fatto di nuovo colpo) regalò a questa gente un'altra perla.
Alessandro Finelli produsse, Luca Banchi ha conservato. Come un anno fa ci sono volute sette camicie di sofferenza, 37 giornate di sudore, speranze, dubbi e di timori. Come un anno fa a rivedere il film del campionato sembra di correre una maratona, il blitz di Fabriano, la tripla maledetta di Respert ad Imola, la batosta di Milano, e prima ancora i punti regalati a Pesaro, Trieste, all'Adecco in casa, l'impresa di Siena, con quel Garri ora in naftalina, vestito da leader. Ci sarà tempo per riviverla attimo per attimo, questa corsa infinita, con la lingua per terra, la paura di non farcela a tagliare il traguardo, la morte in faccia dopo le sei sconfitte consecutive, la resurrezione strappata con le unghie, ma anche (non è un demerito) con l'aiuto di un calendario alla fine benevolo, che ha messo gli amaranto di fronte ad una Biella e una Trieste che avevano ben poco da chiedere al finale di stagione.
La partita con la Coop è stata l'ennesimo patimento. All'intervallo il palazzo mugugnava, inutile, sbagliato nasconderlo. La Mabo ad inseguire, la truppa di Pancotto a guidare le danze con un Erdmann scatenato, con il solito concreto Mazique, ma anche con Agostini, Lazic e Pastore in campo, le tre riserve giuliane. Sul fronte livornese poca applicazione in difesa, il perimetro lasciato quasi sguarnito (la tripla finale di Casoli grida ancora vendetta), mani gelide (1/7 da tre), circolazione difettosa. La partenza contratta aveva colpito ancora. Usciti dallo stanzone però, i soldati di Banchi sono diventati guerrieri, e i mugugni del palazzo sono diventati incitamento, calore vivo, attaccamento. Quando la gente vede il cuore in campo, si appassiona, si immedesima, si innamora. Vincere col cuore è più bello che farlo col talento. E così è accaduto. Livorno ha iniziato a graffiare a metà terzo quarto, proprio come aveva fatto a Biella, e ha cominciato la risalita. «In spogliatoio ho detto ai ragazzi che al di là dell'aspetto tecnico, nessuno avrebbe dovuto rimproverarci per la grinta messa in campo - racconta il coach - nessuno avrebbe dovuto dire che il nostro atteggiamento non meritava la serie A1. Sono contento di aver visto quella reazione veemente, decisiva. Il pubblico? Ci ha fatto comodo, ma la spinta l'abbiamo data noi».
Adesso lo sguardo è rivolto alla partita di domani sera a Pesaro (anticipata alle 19, con diretta su RaiSport Sat). Una sfida che avrebbe potuto essere decisiva, e che invece servirà solo da passerella finale, visto che anche per la Scavolini (già sesta) non riveste importanza. Ci sarà spazio, crediamo, per chi è rimasto sacrificato durante quest'annata, lavorando duro in palestra e rimanendo lontano dai riflettori, Simone Pierich, su tutti, e poi Garri, magari anche il giovane Banti. Elliott e Conley, i due pilastri, potranno finalmente riposarsi. Vorremmo rivederli... freschi, l'anno prossimo, in maglia amaranto.
Giulio Corsi
Il pugno alzato di Adrian Autry verso il palazzo impazzito. I guizzi di Banchi in panchina, l'abbraccio, forte, fraterno, spontaneo, con Walter De Raffaele, lo scudiero utile e silenzioso, dopo l'annuncio della sconfitta di Imola. E poi il boato, liberatorio, del palasport, le seimila braccia al cielo, il popolo amaranto che come un fiume in piena si riversa sul parquet, lo invade, si stringe intorno ai propri beniamini, sente il cuore tremare, gode, come in una nottata di fuoco e di fiamme. Fotogrammi di un mercoledì sera fantastique, da chiudere a chiave nel cassetto dei ricordi. Bello come il mare, coinvolgente come l'amore, indimenticabile, come quella domenica di undici mesi fa, quando la Mabo (l'accoppiata tra il Basket Livorno e l'azienda aretina ha fatto di nuovo colpo) regalò a questa gente un'altra perla.
Alessandro Finelli produsse, Luca Banchi ha conservato. Come un anno fa ci sono volute sette camicie di sofferenza, 37 giornate di sudore, speranze, dubbi e di timori. Come un anno fa a rivedere il film del campionato sembra di correre una maratona, il blitz di Fabriano, la tripla maledetta di Respert ad Imola, la batosta di Milano, e prima ancora i punti regalati a Pesaro, Trieste, all'Adecco in casa, l'impresa di Siena, con quel Garri ora in naftalina, vestito da leader. Ci sarà tempo per riviverla attimo per attimo, questa corsa infinita, con la lingua per terra, la paura di non farcela a tagliare il traguardo, la morte in faccia dopo le sei sconfitte consecutive, la resurrezione strappata con le unghie, ma anche (non è un demerito) con l'aiuto di un calendario alla fine benevolo, che ha messo gli amaranto di fronte ad una Biella e una Trieste che avevano ben poco da chiedere al finale di stagione.
La partita con la Coop è stata l'ennesimo patimento. All'intervallo il palazzo mugugnava, inutile, sbagliato nasconderlo. La Mabo ad inseguire, la truppa di Pancotto a guidare le danze con un Erdmann scatenato, con il solito concreto Mazique, ma anche con Agostini, Lazic e Pastore in campo, le tre riserve giuliane. Sul fronte livornese poca applicazione in difesa, il perimetro lasciato quasi sguarnito (la tripla finale di Casoli grida ancora vendetta), mani gelide (1/7 da tre), circolazione difettosa. La partenza contratta aveva colpito ancora. Usciti dallo stanzone però, i soldati di Banchi sono diventati guerrieri, e i mugugni del palazzo sono diventati incitamento, calore vivo, attaccamento. Quando la gente vede il cuore in campo, si appassiona, si immedesima, si innamora. Vincere col cuore è più bello che farlo col talento. E così è accaduto. Livorno ha iniziato a graffiare a metà terzo quarto, proprio come aveva fatto a Biella, e ha cominciato la risalita. «In spogliatoio ho detto ai ragazzi che al di là dell'aspetto tecnico, nessuno avrebbe dovuto rimproverarci per la grinta messa in campo - racconta il coach - nessuno avrebbe dovuto dire che il nostro atteggiamento non meritava la serie A1. Sono contento di aver visto quella reazione veemente, decisiva. Il pubblico? Ci ha fatto comodo, ma la spinta l'abbiamo data noi».
Adesso lo sguardo è rivolto alla partita di domani sera a Pesaro (anticipata alle 19, con diretta su RaiSport Sat). Una sfida che avrebbe potuto essere decisiva, e che invece servirà solo da passerella finale, visto che anche per la Scavolini (già sesta) non riveste importanza. Ci sarà spazio, crediamo, per chi è rimasto sacrificato durante quest'annata, lavorando duro in palestra e rimanendo lontano dai riflettori, Simone Pierich, su tutti, e poi Garri, magari anche il giovane Banti. Elliott e Conley, i due pilastri, potranno finalmente riposarsi. Vorremmo rivederli... freschi, l'anno prossimo, in maglia amaranto.
Giulio Corsi