LIVORNO. «A Ken Barlow, uomo e giocatore di grandi qualità morali. Il club, lo staff e i fans sono grati». La targa, in inglese, la consegna in via Pera il presidente Giuseppe Nieri e il vecchio guerriero ringrazia di cuore, raccogliendo l'ultimo applauso e una sciarpa amaranto dai venti irriducibili del North Pride piombati nel fortino amaranto per assistere all'evento. Lo zio Ken infatti stamani torna a casa, il team manager Aldo Savi lo accompagnerà a Pisa con un biglietto di sola andata. In calce alla targa, naturalmente, le imprese firmate dal grande vecchio di Indianapolis: 2000 - 2001 promozione in A1, 2001-2002 salvezza.
«L'ultimo tiro era il mio tiro, in carriera ne avrò fatti milioni di canestri tirando da quattro metri sulla linea di fondo». Così parlava lo zio Ken il 5 giugno dell'anno scorso dopo il ciuff decisivo a Reggio Emilia. L'uomo della promozione poi è diventato il bostik ideale per incollare la Mabo anche al piano di sopra: doveva essere il capo carismatico dello spogliatoio, il fratellone dei nuovi americani, invece in questa stagione senza pivot si è dovuto riscoprire uomo d'area, costretto ad andare in prima linea contro i panzer nemici e soprattutto a giocare in quintetto base e con minutaggi lunghi.
Ora, a quasi trentotto anni (li compirà il 20 settembre) e dopo dieci stagioni in Italia - Milano, Reggio Calabria, Treviso, Pistoia, tre a Montecatini, Sassari e quasi due a Livorno - e una vita in Europa (ha vinto anche tre scudetti e due Coppe di Israele col Maccabi Tel Aviv, Coppa delle Coppe e Coppa di Grecia col Paok Salonicco), zio Ken ha detto che non si vive di solo basket. Sottovoce, con i suoi modi garbati, ma l'ha detto.
Sarà una scelta definitiva? Barlow ascolta la domanda, poi si fa una grassa risata. «Sì - dice - questa è la verità. Almeno oggi io penso così. Devo andare a casa, la mia famiglia vive a Indianapolis, dopo tanto tempo passato in Europa sento il bisogno di tornare».
Per questo sabato scorso, nello spogliatoio di Pesaro, ha riunito i compagni. «Era la mia ultima partita, lo sentivo dentro. Ma un giocatore resta un giocatore, è molto difficile lasciare questo tipo di vita e una città come Livorno, dove sono stato molto bene. Squadra, società, tifosi: qui ho vissuto un periodo bello. E poi la Toscana mi piace molto. Voi avete tutto: mare, montagna, Firenze. Livorno è in posizione ideale: se vuoi andare a Montecarlo o a Roma fai presto, le distanze sono piuttosto brevi. A Indianapolis dovrò cambiare tutto: ora lo vedo possibile, fra trenta-quaranta giorni chissà. E se dovesse pentirmi decidendo di tornare a giocare sarebbe comunque in Italia».
Ken Barlow e il basket, un grande feeling. Potrebbe avere un futuro da coach? «La pallacanestro mi piace vista da tutti gli angoli: allenare sarebbe bello, ma qui in Italia dovrei fare un esame, mentre nella NBA è tutto libero, chiunque può andare in panchina. Basta solo avere talento». E cosa farà da grande? «Devo riflettere - sospira - ho tanti amici business men. Uno lavora nel settore della schiuma e cerca un partner. Vedrò». Buona fortuna, Ken.
re.mar.
«L'ultimo tiro era il mio tiro, in carriera ne avrò fatti milioni di canestri tirando da quattro metri sulla linea di fondo». Così parlava lo zio Ken il 5 giugno dell'anno scorso dopo il ciuff decisivo a Reggio Emilia. L'uomo della promozione poi è diventato il bostik ideale per incollare la Mabo anche al piano di sopra: doveva essere il capo carismatico dello spogliatoio, il fratellone dei nuovi americani, invece in questa stagione senza pivot si è dovuto riscoprire uomo d'area, costretto ad andare in prima linea contro i panzer nemici e soprattutto a giocare in quintetto base e con minutaggi lunghi.
Ora, a quasi trentotto anni (li compirà il 20 settembre) e dopo dieci stagioni in Italia - Milano, Reggio Calabria, Treviso, Pistoia, tre a Montecatini, Sassari e quasi due a Livorno - e una vita in Europa (ha vinto anche tre scudetti e due Coppe di Israele col Maccabi Tel Aviv, Coppa delle Coppe e Coppa di Grecia col Paok Salonicco), zio Ken ha detto che non si vive di solo basket. Sottovoce, con i suoi modi garbati, ma l'ha detto.
Sarà una scelta definitiva? Barlow ascolta la domanda, poi si fa una grassa risata. «Sì - dice - questa è la verità. Almeno oggi io penso così. Devo andare a casa, la mia famiglia vive a Indianapolis, dopo tanto tempo passato in Europa sento il bisogno di tornare».
Per questo sabato scorso, nello spogliatoio di Pesaro, ha riunito i compagni. «Era la mia ultima partita, lo sentivo dentro. Ma un giocatore resta un giocatore, è molto difficile lasciare questo tipo di vita e una città come Livorno, dove sono stato molto bene. Squadra, società, tifosi: qui ho vissuto un periodo bello. E poi la Toscana mi piace molto. Voi avete tutto: mare, montagna, Firenze. Livorno è in posizione ideale: se vuoi andare a Montecarlo o a Roma fai presto, le distanze sono piuttosto brevi. A Indianapolis dovrò cambiare tutto: ora lo vedo possibile, fra trenta-quaranta giorni chissà. E se dovesse pentirmi decidendo di tornare a giocare sarebbe comunque in Italia».
Ken Barlow e il basket, un grande feeling. Potrebbe avere un futuro da coach? «La pallacanestro mi piace vista da tutti gli angoli: allenare sarebbe bello, ma qui in Italia dovrei fare un esame, mentre nella NBA è tutto libero, chiunque può andare in panchina. Basta solo avere talento». E cosa farà da grande? «Devo riflettere - sospira - ho tanti amici business men. Uno lavora nel settore della schiuma e cerca un partner. Vedrò». Buona fortuna, Ken.
re.mar.