CANTU’ - Essendo cresciuto, come uomo e come atleta, tra i «pretoni di Cantù» (copyright di Dan Peterson, sulla definizione), è probabile che il quarantenne Antonello Riva creda nei miracoli. O, in subordine, negli atti di fede che trovano riconoscimenti già nella vita terrena. E’ un miracolo, la stagione dell’Oregon, salpata verso i mari del basket per conquistare una comoda salvezza e ritrovatasi invece di nuovo tra le «grandi»? Probabile: Stefano Sacripanti, l’allenatore in un’annata fiorita al di là di ogni aspettativa, è il primo ad ammetterlo. Ma perfino in un miracolo, o in un atto di fede, se preferite, c’è una componente laica. Nel caso di Antonello, sfocia nel culto umilissimo del lavoro e del sudore «operaio». Promise, un anno fa, quando la salvezza arrivò con il fiatone: «Non posso ancora permettermi di lasciare: prima di congedarmi, devo assolutamente aiutare Cantù ad essere di nuovo competitiva». La tenacia, dote anche questa (e non solo l’essere «pretoni») della gente di quei posti, è stata premiata. L’Antonello che dai venti ai trent’anni spaccava le difese, l’Antonello che, imbottendo di palloni i canestri avversari e facendone frusciare le retine, ha scalato la classifica di ogni epoca dei cannonieri della serie A, è ora il punto di contatto tra due epoche: quella del dialetto parlato in squadra, a mo’ di codice di comunicazione, e quella dell’inglese più o meno obbligatorio, essendo la Cantù attuale costruita su un nucleo americano.
Antonello parla sia il dialetto sia l’inglese. Ha dunque portato in dote ai compagni di oggi la cultura del passato, sposandola ai nuovi tempi e a un piccolo capolavoro di ingegneria umana (la solidarietà creatasi nel gruppo) e finanziaria (l’Oregon è costata meno di quattro miliardi, un miracolo nel miracolo). Sì, è stato ed è un uomo comunque determinante e decisivo, l’Antonello. Un uomo che, non si arrabbi l’interessato, rischia di scalzare Pierluigi Marzorati dal ruolo di personaggio simbolo nella lunga storia della passione tra Cantù e la pallacanestro. Correva l’anno 1979. L’Urss già da tempo aveva inventato, con Ivan Edesko, la figura della guardia tiratrice solida e rocciosa nel fisico. A Cantù c’era un ragazzino che rappresentava il futuro, anche per la pallacanestro italiana. Aveva un casco di capelli biondi, due spalle a trapezio e lo chiamavano già «Nembo Kid». Alla società, gestita con parsimoniosa saggezza dalla famiglia Allievi, era costato il valore di un pullmino (usato, che diamine...) da destinare alla parrocchia di Rovagnate insieme a una muta di palloni per la squadra dell’oratorio. Vent’anni e più dopo, considerato quello che Riva ha combinato, possiamo dire che la sua plusvalenza è su valori record.
Eppure Antonello, uno scudetto, due Coppe dei campioni e la presenza nella nazionale prima in Europa nel 1983, sarebbe stato un giocatore ancora più devastante se in un dannato pomeriggio, a Reggio Emilia, non si fosse rotto un ginocchio. Il giocatore che s’incuneva come un caterpillar nelle difese, che aveva un «arresto e tiro» da manuale, avrebbe lasciato il posto a un cestista meno esplosivo ma più completo, soprattutto nell’arte del passaggio.
Tuttavia nel suo fisico generoso è rimasta una goccia di energia per rimettersi sulle spalle la Cantù che egli aveva riabbracciato, ovviamente del tutto ricambiato. Ora che la missione è stata portata a termine, ora che sul parquet stridono anche le scarpe del figlio Ivan, meno «Nembo Kid» ma dotato di un talento finissimo, Antonello potrebbe anche decidere di chiudere: «Mi guardo allo specchio, i peli della barba sono bianchi e in testa aumentano i fili argentati». Ma quando la legge del tempo la subisci dall’alto della classifica, non puoi essere triste.
Flavio Vanetti
Antonello parla sia il dialetto sia l’inglese. Ha dunque portato in dote ai compagni di oggi la cultura del passato, sposandola ai nuovi tempi e a un piccolo capolavoro di ingegneria umana (la solidarietà creatasi nel gruppo) e finanziaria (l’Oregon è costata meno di quattro miliardi, un miracolo nel miracolo). Sì, è stato ed è un uomo comunque determinante e decisivo, l’Antonello. Un uomo che, non si arrabbi l’interessato, rischia di scalzare Pierluigi Marzorati dal ruolo di personaggio simbolo nella lunga storia della passione tra Cantù e la pallacanestro. Correva l’anno 1979. L’Urss già da tempo aveva inventato, con Ivan Edesko, la figura della guardia tiratrice solida e rocciosa nel fisico. A Cantù c’era un ragazzino che rappresentava il futuro, anche per la pallacanestro italiana. Aveva un casco di capelli biondi, due spalle a trapezio e lo chiamavano già «Nembo Kid». Alla società, gestita con parsimoniosa saggezza dalla famiglia Allievi, era costato il valore di un pullmino (usato, che diamine...) da destinare alla parrocchia di Rovagnate insieme a una muta di palloni per la squadra dell’oratorio. Vent’anni e più dopo, considerato quello che Riva ha combinato, possiamo dire che la sua plusvalenza è su valori record.
Eppure Antonello, uno scudetto, due Coppe dei campioni e la presenza nella nazionale prima in Europa nel 1983, sarebbe stato un giocatore ancora più devastante se in un dannato pomeriggio, a Reggio Emilia, non si fosse rotto un ginocchio. Il giocatore che s’incuneva come un caterpillar nelle difese, che aveva un «arresto e tiro» da manuale, avrebbe lasciato il posto a un cestista meno esplosivo ma più completo, soprattutto nell’arte del passaggio.
Tuttavia nel suo fisico generoso è rimasta una goccia di energia per rimettersi sulle spalle la Cantù che egli aveva riabbracciato, ovviamente del tutto ricambiato. Ora che la missione è stata portata a termine, ora che sul parquet stridono anche le scarpe del figlio Ivan, meno «Nembo Kid» ma dotato di un talento finissimo, Antonello potrebbe anche decidere di chiudere: «Mi guardo allo specchio, i peli della barba sono bianchi e in testa aumentano i fili argentati». Ma quando la legge del tempo la subisci dall’alto della classifica, non puoi essere triste.
Flavio Vanetti