A Treviso, Sergei Chikalkin, è ormai da più di nove mesi, ma una vera intervista approfondita non l'aveva mai rilasciata. Questo, non per una sua mancanza di buona volontà, ma per un fatto, che può apparire banale all'inizio del terzo millennio: la difficoltà di comprensione. In Italia sono poche le persone che conoscono il russo e lui, il Barthez della Benetton, non parlando, almeno inizialmente, una parola d'inglese, aveva incontrato numerose difficoltà a farsi capire dai compagni e da coach Mike D'Antoni, figurarsi dai giornalisti...
A cinque giorni dalla prima semifinale scudetto con la Kinder, finalmente, grazie all'aiuto della moglie Olga, una venticinquenne bionda niente male, laureata in giurisprudenza e conosciuta da Sergei sei anni fa quando giocava nel club della sua città, il Samara, l'incontro è avvenuto, in una calda mattinata, alla Ghirada. Del resto, Olga era la traduttrice, dall'inglese al russo, del Samara e per chi, come scrive, non ha molta confidenza con la lingua anglosassone, è già un aiuto importante. Dopo un'ora di conversazione, si scoprono moltissime curiosità, la più suggestiva delle quali è che Olga è una specie di portafortuna della Benetton. La dama Chikalkin, infatti, ha assistito a tutte le partite casalinghe dei biancoverdi, eccetto una: guarda caso quella del 21 aprile contro la Snaidero, quando Pittis e compagni subirono l'unica sconfitta al Palaverde di questa già fantastica stagione. Sarà bene che Laurel, la simpatica consorte di D'Antoni, una specie di guida di tutte le compagne dei giocatori biancoverdi, la porti di peso a Villorba sia martedì sera che sabato 1 giugno, le date delle prossime gare contro la Kinder... Da questo punto di vista, Sergei è già caricatissimo. «E' tutto l'anno che ci alleniamo per vincere qualcosa d'importante», esordisce, «sarebbe un dramma (Olga traduce proprio così, ndr) se non potessimo disputare la finale, dove troveremmo due squadre sicuramente inferiori alla Virtus». Ora Sergei parla anche qualche parola d'italiano e, con l'inglese, comincia a cavarsela: si può iniziare, quindi, ad abbozzare anche un colloquio diretto.
Sergei, ripeterai contro i campioni d'Italia i 30 punti che infilasti nella retina, il sabato di Pasqua, a Casalecchio. «Non m'interessa il mio score personale», risponde, «preferisco segnare 10-12 punti e, magari, che la squadra vinca...».
Ma quei 30 punti, che rappresentano il tuo massimo bottino personale, furono davvero provocati dalla reazione per l'arrivo di Charlie Bell?
«Nemmeno per sogno, altrimenti il club dovrebbe ingaggiare ogni giorno un giocatore importante per vedermi fare 30 punti... No, se proprio volete saperlo, non mi ha dato fastidio che sia arrivato Bell e, di conseguenza, che io ora non sia più nello starting five. Qui giochiamo tutti 20-22 minuti: è impensabile che io mi metta in testa di giocare, come in Russia, 35 minuti...».
Ti capisci ora con i compagni e il coach?
«Perfettamente, c'è una buona comunicazione e, poi, sul parquet, basta mettere in pratica i tanti schemi che prepariamo in allenamento».
Cosa ti è accaduto, a Forlì, in quei famosi ultimi 4 secondi della semifinale di Coppa Italia contro Siena?
«Non è questione di non comprensione, ma solo una mia colpa: non mi accorsi che mancava così poco tempo. Devo dire, però, che, sia il coach che tutti i compagni, hanno compreso, quel giorno, il mio stato d'animo e nessuno mi ha fatto pesare quell'errore: hanno dimostrato davvero tanta sensibilità».
Da chi hai imparato quello strano modo di tirare. «No, non me l'ha insegnato Sergej Belov (il suo allenatore all'Ural Great Perm, da dove è stato ingaggiato ad agosto da Gherardini, ndr) l'ho appreso solo da madre natura...».
Che differenza c'è fra Belov e D'Antoni. «Sono agli antipodi come coach. Sergei lavora molto sul fisico e sul potenziamento muscolare e predilige l'attacco alla difesa; Mike, invece, concentra molto le sue sedute sull'aspetto tecnico e punta molto sull'intensità in difesa». Una bella risposta alle teorie di qualche critico italiano che, su D'Antoni, la pensa in modo diametralmente opposto...».
Davide Vatrella
A cinque giorni dalla prima semifinale scudetto con la Kinder, finalmente, grazie all'aiuto della moglie Olga, una venticinquenne bionda niente male, laureata in giurisprudenza e conosciuta da Sergei sei anni fa quando giocava nel club della sua città, il Samara, l'incontro è avvenuto, in una calda mattinata, alla Ghirada. Del resto, Olga era la traduttrice, dall'inglese al russo, del Samara e per chi, come scrive, non ha molta confidenza con la lingua anglosassone, è già un aiuto importante. Dopo un'ora di conversazione, si scoprono moltissime curiosità, la più suggestiva delle quali è che Olga è una specie di portafortuna della Benetton. La dama Chikalkin, infatti, ha assistito a tutte le partite casalinghe dei biancoverdi, eccetto una: guarda caso quella del 21 aprile contro la Snaidero, quando Pittis e compagni subirono l'unica sconfitta al Palaverde di questa già fantastica stagione. Sarà bene che Laurel, la simpatica consorte di D'Antoni, una specie di guida di tutte le compagne dei giocatori biancoverdi, la porti di peso a Villorba sia martedì sera che sabato 1 giugno, le date delle prossime gare contro la Kinder... Da questo punto di vista, Sergei è già caricatissimo. «E' tutto l'anno che ci alleniamo per vincere qualcosa d'importante», esordisce, «sarebbe un dramma (Olga traduce proprio così, ndr) se non potessimo disputare la finale, dove troveremmo due squadre sicuramente inferiori alla Virtus». Ora Sergei parla anche qualche parola d'italiano e, con l'inglese, comincia a cavarsela: si può iniziare, quindi, ad abbozzare anche un colloquio diretto.
Sergei, ripeterai contro i campioni d'Italia i 30 punti che infilasti nella retina, il sabato di Pasqua, a Casalecchio. «Non m'interessa il mio score personale», risponde, «preferisco segnare 10-12 punti e, magari, che la squadra vinca...».
Ma quei 30 punti, che rappresentano il tuo massimo bottino personale, furono davvero provocati dalla reazione per l'arrivo di Charlie Bell?
«Nemmeno per sogno, altrimenti il club dovrebbe ingaggiare ogni giorno un giocatore importante per vedermi fare 30 punti... No, se proprio volete saperlo, non mi ha dato fastidio che sia arrivato Bell e, di conseguenza, che io ora non sia più nello starting five. Qui giochiamo tutti 20-22 minuti: è impensabile che io mi metta in testa di giocare, come in Russia, 35 minuti...».
Ti capisci ora con i compagni e il coach?
«Perfettamente, c'è una buona comunicazione e, poi, sul parquet, basta mettere in pratica i tanti schemi che prepariamo in allenamento».
Cosa ti è accaduto, a Forlì, in quei famosi ultimi 4 secondi della semifinale di Coppa Italia contro Siena?
«Non è questione di non comprensione, ma solo una mia colpa: non mi accorsi che mancava così poco tempo. Devo dire, però, che, sia il coach che tutti i compagni, hanno compreso, quel giorno, il mio stato d'animo e nessuno mi ha fatto pesare quell'errore: hanno dimostrato davvero tanta sensibilità».
Da chi hai imparato quello strano modo di tirare. «No, non me l'ha insegnato Sergej Belov (il suo allenatore all'Ural Great Perm, da dove è stato ingaggiato ad agosto da Gherardini, ndr) l'ho appreso solo da madre natura...».
Che differenza c'è fra Belov e D'Antoni. «Sono agli antipodi come coach. Sergei lavora molto sul fisico e sul potenziamento muscolare e predilige l'attacco alla difesa; Mike, invece, concentra molto le sue sedute sull'aspetto tecnico e punta molto sull'intensità in difesa». Una bella risposta alle teorie di qualche critico italiano che, su D'Antoni, la pensa in modo diametralmente opposto...».
Davide Vatrella