MILANO — I capelli bianchi sono un segno di saggezza e di esperienza. Il timbro risoluto e deciso lascia intuire dalla prima risposta il piglio del leader, dell'organizzatore. Lo sguardo intenso e penetrante accresce il valore dei concetti, delle storie, dei racconti. Di storie che profumano di parquet, di fatica e di sudore, Sandro Gamba ne ha tante nella memoria. E non c'è occasione migliore del suo settantesimo compleanno per mettersi seduti ad ascoltarne qualcuna.
Cresciuto in mezzo alla guerra, con la passione dello sport, in quella via Washington dove sorse il primo campo da basket di Milano, il piccolo Sandro iniziò la sua carriera fra i canestri per colpa di un scarica di mitra: «Era il giorno della Liberazione - racconta - a Milano c'era una gran confusione. Stavamo giocando in via Washington, fra le macerie dei bombardamenti, quando insieme ad altri amici finimmo in mezzo a una sparatoria. Qualcuno di noi, purtroppo, cadde sotto i colpi di mitra. Io fui colpito a una mano». E dopo le prime cure e la sistemazione dell'arto il consiglio del medico: «Mi disse di muoverla tanto, e per questo decisi di giocare a basket. Lì, davanti a casa, i soldati americani avevano messo due canestri fra le rovine di una città fantasma. Quel gioco ci piacque subito e anche quando loro portarono via tabellone e retine, continuammo a giocare disegnando un cerchio per terra con il gesso. Quello era il nostro canestro, un vero playground. Più streetball di cosi!».
Messa in soffitta la bicicletta Rossignoli, compratagli dal padre con quattro cambiali da 10mila lire e accantonata la passione per il ciclismo, arrivò il basket agonistico: «Giocavo nel Csi di Milano, Rubini e Bogoncelli vennero a vedere una partita, cercavano dei giovani. Mi presero e nel 1950 a Ravenna feci il mio esordio con le scarpette rosse». Un matrimonio durato 15 stagioni da giocatore e 8 da allenatore: «L'Olimpia è stata la mia squadra, la mia società. Ho iniziato sulla terra battuta con la Borletti, poi sul cemento e infine sul parquet all'epoca della Simmenthal che vinceva ovunque».
Un basket glorioso ma diverso da quello di oggi: «Noi giocavamo e lavoravamo. Tutti. Io facevo l'ispettore delle vendite alla Simmenthal. Ma in palestra nessuno si risparmiava, avevamo la pallacanestro nel sangue». E dopo 10 scudetti e l'Olimpiade nel 60 a Roma si apre la carriera da allenatore: «Sono stato disoccupato per 24 ore - prosegue Gamba - quando a 33 anni ho deciso di smettere. Il giorno dopo Rubini mi chiese di fargli da secondo. Il grande Cesare mi dava carta bianca in allenamento, diceva di non essere preparato tecnicamente perché il basket era cambiato. Ma la sua leadership e la sua intelligenza ci facevano vincere in partita».
In sessant'anni di pallacanestro Gamba ha affrontato e allenato tanti giocatori, alcuni dei veri miti: «Ho marcato Jerry West alle Olimpiadi di Roma, impressionante. In Italia i miei compagni più forti sono stati Paolo Vittori e Dado Lombardi, il primo "all around" del basket italiano». E a proposito di basket italiano, cosa manca per crescere ancora ? «Ci siamo dimenticati come si insegna a giocare, servono allenatori maestri. E poi i nostri ragazzi devono imparare ad allenarsi da soli, a essere leader di se stessi. Io l'ho imparato da Bill Bradley, che si allenava da solo tre ore tutte le mattine al Palalido». Parola di Sandro Gamba. Grazie e auguri.
Maurizio Trezzi
Cresciuto in mezzo alla guerra, con la passione dello sport, in quella via Washington dove sorse il primo campo da basket di Milano, il piccolo Sandro iniziò la sua carriera fra i canestri per colpa di un scarica di mitra: «Era il giorno della Liberazione - racconta - a Milano c'era una gran confusione. Stavamo giocando in via Washington, fra le macerie dei bombardamenti, quando insieme ad altri amici finimmo in mezzo a una sparatoria. Qualcuno di noi, purtroppo, cadde sotto i colpi di mitra. Io fui colpito a una mano». E dopo le prime cure e la sistemazione dell'arto il consiglio del medico: «Mi disse di muoverla tanto, e per questo decisi di giocare a basket. Lì, davanti a casa, i soldati americani avevano messo due canestri fra le rovine di una città fantasma. Quel gioco ci piacque subito e anche quando loro portarono via tabellone e retine, continuammo a giocare disegnando un cerchio per terra con il gesso. Quello era il nostro canestro, un vero playground. Più streetball di cosi!».
Messa in soffitta la bicicletta Rossignoli, compratagli dal padre con quattro cambiali da 10mila lire e accantonata la passione per il ciclismo, arrivò il basket agonistico: «Giocavo nel Csi di Milano, Rubini e Bogoncelli vennero a vedere una partita, cercavano dei giovani. Mi presero e nel 1950 a Ravenna feci il mio esordio con le scarpette rosse». Un matrimonio durato 15 stagioni da giocatore e 8 da allenatore: «L'Olimpia è stata la mia squadra, la mia società. Ho iniziato sulla terra battuta con la Borletti, poi sul cemento e infine sul parquet all'epoca della Simmenthal che vinceva ovunque».
Un basket glorioso ma diverso da quello di oggi: «Noi giocavamo e lavoravamo. Tutti. Io facevo l'ispettore delle vendite alla Simmenthal. Ma in palestra nessuno si risparmiava, avevamo la pallacanestro nel sangue». E dopo 10 scudetti e l'Olimpiade nel 60 a Roma si apre la carriera da allenatore: «Sono stato disoccupato per 24 ore - prosegue Gamba - quando a 33 anni ho deciso di smettere. Il giorno dopo Rubini mi chiese di fargli da secondo. Il grande Cesare mi dava carta bianca in allenamento, diceva di non essere preparato tecnicamente perché il basket era cambiato. Ma la sua leadership e la sua intelligenza ci facevano vincere in partita».
In sessant'anni di pallacanestro Gamba ha affrontato e allenato tanti giocatori, alcuni dei veri miti: «Ho marcato Jerry West alle Olimpiadi di Roma, impressionante. In Italia i miei compagni più forti sono stati Paolo Vittori e Dado Lombardi, il primo "all around" del basket italiano». E a proposito di basket italiano, cosa manca per crescere ancora ? «Ci siamo dimenticati come si insegna a giocare, servono allenatori maestri. E poi i nostri ragazzi devono imparare ad allenarsi da soli, a essere leader di se stessi. Io l'ho imparato da Bill Bradley, che si allenava da solo tre ore tutte le mattine al Palalido». Parola di Sandro Gamba. Grazie e auguri.
Maurizio Trezzi