Sandro Gamba, pesano i settant’anni che compie oggi?
«No, perché è il mio corpo ad averne settanta. Lo spirito ne ha trentatré. Come Gesù Cristo? Be’, allora diciamo trentacinque, per non offendere...».
Non ne ha dedicati troppi al basket?
«Troppi no, molti sì. Fanno cinquantasette, tutti divertenti. E pensare che questo sport non era nei miei progetti».
Racconti.
«Sono nato a Milano, in via Washington, a venti metri dal campo della Borletti. Mio padre mi portava a vedere le partite, ma i miei miti erano Jesse Owens e Coppi. Sì, Coppi: sognavo di imitarlo. Papà me lo indicò e mi disse: ‘‘È stato in prigionia, ma è tornato più forte; prendilo a modello’’. Il ciclismo mi avrebbe anche permesso, nel 1960, di recuperare da un infortunio a un ginocchio e di giocare all’Olimpiade di Roma. Contro Oscar Robertson e gli Usa...».
Ma al basket praticato, come arrivò?
«25 aprile 1945: la Liberazione. Mi beccai una raffica di mitra alla mano destra. I medici dissero: ‘‘Va amputata’’. I miei genitori replicarono: ‘‘Non se ne parla’’. L’1 agosto la Borletti iniziava una leva: mi presentai. Il basket mi permise di recuperare. Non solo: imparai ad essere ambidestro».
Migliore il Gamba giocatore o il Gamba allenatore?
«L’allenatore. Smisi di giocare a trentatré anni, ci risiamo con Gesù Cristo...: mi ero infortunato e non mi divertivo più. Non volevo sfiorire in B: meglio una pagina nuova».
Perché si ricorda di meno il Gamba cestista, che pure ha vinto parecchio?
«Perché il basket dell’epoca era così differente... Se è per questo, ci si scorda anche di Stefanini, Pieri, Riminucci. Si giocava in condizioni infami: ricordo che il mio debutto in serie A avvenne a Ravenna su un campo in terra, dove c’era il mercato dei cavalli. Ma tra polvere e buche, si imparava a trattare la palla divinamente».
Quelli della sua generazione sono nati troppo presto. Fossero nel basket di oggi...
«Spopolerebbero, volete dire? Forse. Per un solo motivo: la passione immensa. Quando gli americani se ne andarono e portarono via i cesti da via Washington, noi tracciammo due circonferenze per terra, alle estremità del campo. Per segnare, occorreva tirare in alto e fare sì che la palla cadesse nel cerchio...».
Gamba è arrivato là dove si riprometteva di giungere?
«Un po’ oltre. Grazie anche ai giocatori, dai quali ho sempre imparato molto».
Il trionfo.
«L’argento olimpico a Mosca. Eliminammo l’Urss in semifinale e l’impresa fu poi ricordata dallo speak er del Madison Square Garden: ‘‘Ecco Gamba, l’uomo che ha battuto i sovietici a casa loro’’. E il segretario del Pci, Berlinguer, mi mandò un telegramma di complimenti: buffo, no?».
La batosta.
«L’Europeo del 1981. Travolti dalla pressione. Ma dagli errori, s’impara: due anni dopo vincemmo noi».
Il colpo di genio.
«La marcatura di Yelverton su Brabender nella finale della Coppa dei Campioni del 1975: Charlie nascose la palla al fuoriclasse del Real, la Ignis vinse».
La solenne cavolata.
«Tante, non ce n’è solo una».
Una volta Meneghin uscì dal campo applaudendo e dicendo: «Toglimi, sì toglimi, bravo pirla».
«In spogliatoio gli spiegai, a muso duro, che si faceva come dicevo io. Conquistai la stima di Dino perché avevo parlato davanti a tutti».
Dicevano i detrattori: troppo rigido e cocciuto.
«Se metto sul tavolo il curriculum, faccio scopa. Basta questo. Quanto alla cocciutaggine, meglio parlare di pragmatismo: quando concordavo una cosa, era quella».
È vero che c’era più poesia nel basket di un tempo?
«C’era più immaginazione. La parola giusta è questa, non fantasia. Chiedevo sempre ai giocatori di immaginare lo sviluppo di una certa azione».
Il suo quintetto ideale. Italiano, precisiamo.
«Ossola, Riva, Sacchetti, Bisson, Meneghin».
Il «quintetto ideale» di chi non vorrebbe mai più allenare.
«Dimentico chi non mi va».
Ci sarà però un giocatore che l’ha delusa più di tutti.
«Stefano Rusconi. Avrebbe potuto cambiare il nostro basket e diventare il primo italiano in pianta stabile nella Nba».
Chi, invece, lei ha valorizzato oltre il suo valore?
«Renzo Vecchiato: una tenacia esemplare».
Venti parole al massimo per parlare di Rubini.
«Il primo professionista; un leader; un amico. Uno che diceva: ‘‘Di tecnica so poco, ma so tutto degli uomini’’».
Un tasto dolente: la «sua» Olimpia. Perché, nonostante trionfi e una storia ultrasessantennale, rischia di sparire?
«Perché negli ultimi anni c’è stata troppa gente di passaggio. Mi sembra però una cosa dell’altro mondo che il club sparisca. E non è da Milano vivacchiare così: spero in una svolta».
Un’idea per il basket italiano.
«Il talento umano e atletico c’è. Mancano però istruttori capaci. E si crei quel torneo giovanile nazionale che è un’idea di 40 anni fa».
Spesso usa uno slang americano. E la prendono per i fondelli.
«Amo l’America e la cultura che c’è nel suo sport. Grazie all’inglese ‘‘slangato’’ Usa, oggi posso guidare una squadra formata dai migliori talenti giovani del mondo».
Costruisca un Frankenstein ideale del basket.
«Cervello: Ossola, il sommo regista. Braccia: Solfrini; non finivano più. Gambe: Esposito, un bianco ‘‘nero’’. Cuore: Dell’Agnello».
Non Meneghin, alla voce cuore?
«Dino è di più. È la sintesi inarrivabile della leadership».
Flavio Vanetti
«No, perché è il mio corpo ad averne settanta. Lo spirito ne ha trentatré. Come Gesù Cristo? Be’, allora diciamo trentacinque, per non offendere...».
Non ne ha dedicati troppi al basket?
«Troppi no, molti sì. Fanno cinquantasette, tutti divertenti. E pensare che questo sport non era nei miei progetti».
Racconti.
«Sono nato a Milano, in via Washington, a venti metri dal campo della Borletti. Mio padre mi portava a vedere le partite, ma i miei miti erano Jesse Owens e Coppi. Sì, Coppi: sognavo di imitarlo. Papà me lo indicò e mi disse: ‘‘È stato in prigionia, ma è tornato più forte; prendilo a modello’’. Il ciclismo mi avrebbe anche permesso, nel 1960, di recuperare da un infortunio a un ginocchio e di giocare all’Olimpiade di Roma. Contro Oscar Robertson e gli Usa...».
Ma al basket praticato, come arrivò?
«25 aprile 1945: la Liberazione. Mi beccai una raffica di mitra alla mano destra. I medici dissero: ‘‘Va amputata’’. I miei genitori replicarono: ‘‘Non se ne parla’’. L’1 agosto la Borletti iniziava una leva: mi presentai. Il basket mi permise di recuperare. Non solo: imparai ad essere ambidestro».
Migliore il Gamba giocatore o il Gamba allenatore?
«L’allenatore. Smisi di giocare a trentatré anni, ci risiamo con Gesù Cristo...: mi ero infortunato e non mi divertivo più. Non volevo sfiorire in B: meglio una pagina nuova».
Perché si ricorda di meno il Gamba cestista, che pure ha vinto parecchio?
«Perché il basket dell’epoca era così differente... Se è per questo, ci si scorda anche di Stefanini, Pieri, Riminucci. Si giocava in condizioni infami: ricordo che il mio debutto in serie A avvenne a Ravenna su un campo in terra, dove c’era il mercato dei cavalli. Ma tra polvere e buche, si imparava a trattare la palla divinamente».
Quelli della sua generazione sono nati troppo presto. Fossero nel basket di oggi...
«Spopolerebbero, volete dire? Forse. Per un solo motivo: la passione immensa. Quando gli americani se ne andarono e portarono via i cesti da via Washington, noi tracciammo due circonferenze per terra, alle estremità del campo. Per segnare, occorreva tirare in alto e fare sì che la palla cadesse nel cerchio...».
Gamba è arrivato là dove si riprometteva di giungere?
«Un po’ oltre. Grazie anche ai giocatori, dai quali ho sempre imparato molto».
Il trionfo.
«L’argento olimpico a Mosca. Eliminammo l’Urss in semifinale e l’impresa fu poi ricordata dallo speak er del Madison Square Garden: ‘‘Ecco Gamba, l’uomo che ha battuto i sovietici a casa loro’’. E il segretario del Pci, Berlinguer, mi mandò un telegramma di complimenti: buffo, no?».
La batosta.
«L’Europeo del 1981. Travolti dalla pressione. Ma dagli errori, s’impara: due anni dopo vincemmo noi».
Il colpo di genio.
«La marcatura di Yelverton su Brabender nella finale della Coppa dei Campioni del 1975: Charlie nascose la palla al fuoriclasse del Real, la Ignis vinse».
La solenne cavolata.
«Tante, non ce n’è solo una».
Una volta Meneghin uscì dal campo applaudendo e dicendo: «Toglimi, sì toglimi, bravo pirla».
«In spogliatoio gli spiegai, a muso duro, che si faceva come dicevo io. Conquistai la stima di Dino perché avevo parlato davanti a tutti».
Dicevano i detrattori: troppo rigido e cocciuto.
«Se metto sul tavolo il curriculum, faccio scopa. Basta questo. Quanto alla cocciutaggine, meglio parlare di pragmatismo: quando concordavo una cosa, era quella».
È vero che c’era più poesia nel basket di un tempo?
«C’era più immaginazione. La parola giusta è questa, non fantasia. Chiedevo sempre ai giocatori di immaginare lo sviluppo di una certa azione».
Il suo quintetto ideale. Italiano, precisiamo.
«Ossola, Riva, Sacchetti, Bisson, Meneghin».
Il «quintetto ideale» di chi non vorrebbe mai più allenare.
«Dimentico chi non mi va».
Ci sarà però un giocatore che l’ha delusa più di tutti.
«Stefano Rusconi. Avrebbe potuto cambiare il nostro basket e diventare il primo italiano in pianta stabile nella Nba».
Chi, invece, lei ha valorizzato oltre il suo valore?
«Renzo Vecchiato: una tenacia esemplare».
Venti parole al massimo per parlare di Rubini.
«Il primo professionista; un leader; un amico. Uno che diceva: ‘‘Di tecnica so poco, ma so tutto degli uomini’’».
Un tasto dolente: la «sua» Olimpia. Perché, nonostante trionfi e una storia ultrasessantennale, rischia di sparire?
«Perché negli ultimi anni c’è stata troppa gente di passaggio. Mi sembra però una cosa dell’altro mondo che il club sparisca. E non è da Milano vivacchiare così: spero in una svolta».
Un’idea per il basket italiano.
«Il talento umano e atletico c’è. Mancano però istruttori capaci. E si crei quel torneo giovanile nazionale che è un’idea di 40 anni fa».
Spesso usa uno slang americano. E la prendono per i fondelli.
«Amo l’America e la cultura che c’è nel suo sport. Grazie all’inglese ‘‘slangato’’ Usa, oggi posso guidare una squadra formata dai migliori talenti giovani del mondo».
Costruisca un Frankenstein ideale del basket.
«Cervello: Ossola, il sommo regista. Braccia: Solfrini; non finivano più. Gambe: Esposito, un bianco ‘‘nero’’. Cuore: Dell’Agnello».
Non Meneghin, alla voce cuore?
«Dino è di più. È la sintesi inarrivabile della leadership».
Flavio Vanetti