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Calebotta, addio a un mito

Con la V nera 314 presenze e 3255 punti. Domani i funerali

La Virtus piange una delle sue stelle più brillanti, che si è spenta all’improvviso in questa vigilia consacrata al derby dei canestri. Nino Calebotta se ne è andato senza far rumore, proprio come aveva fatto quando lasciò il mondo del basket per dedicarsi alla vita fuori dai parquet. Perché lui era un pioniere, un campione vero nato in un’epoca in cui con la pallacanestro ti potevi divertire, ma il futuro dovevi costruirtelo diversamente. Lo fece, chiudendo una carriera eccezionale per dedicarsi all’azienda farmaceutica di famiglia, a Calderara di Reno. Per dedicarsi a una famiglia felice, accanto a Laura, moglie e compagna di una vita, e a tre figlie che gli avevano riempito la vita.
Nino Calebotta era nato il 30 giugno 1930 a Spalato, in Croazia. Nel dopoguerra approdò a Milano per studiare e dedicarsi alla sua grande passione, la pallacanestro. Fu lì, quando indossava i colori del Cus Milano, che fu notato dagli osservatori della Virtus. Era un ragazzone di 206 centimetri, il talento non gli mancava e la tecnica ancor meno. La sua specialità era il gancio, un uncino devastante che faceva dannare le difese avversarie. Arrivò nel mondo della V nera nel ’54, e di lì a poco iniziarono gli anni della gloria. Nella collezione personale del mito Calebotta risplendono i due scudetti conquistati in maglia Minganti, nel ’55 e nel ’56. La sua carriera in bianconero si chuse quindici anni dopo, nel ’69, con un paio di interruzioni tra l’inizio e la fine. A quel punto nel libro dei record di Calebotta c’erano 314 presenze e 3255 punti in maglia Virtus, e 63 gettoni azzurri con l’acuto del quarto posto conquistato alle Olimpiadi di Roma, nel ’60.
Nella scorsa estate, l’abbiamo rivisto in Sala Borsa, a «Sportivamente Bologna». In quei posti che lo avevano visto protagonista assoluto, a raccontare e a ricordare il suo approccio con un basket che oggi faremmo fatica anche a immaginare. «La nostra Virtus era una specie di meraviglioso clan, con ragazzi come Pellanera, Lombardi, Canna, Alesini nacque un’amicizia fraterna. Eravamo giovani e forti, ma non c’è dubbio che fossimo anche pionieri. Con i soldi che circolano nel basket di oggi avrei comprato Bologna. Io guadagnavo trentamila lire al mese, lavoravo otto ore e la sera, all’allenamento, non sempre ero in formissima. Il nostro era un professiomnismo molto soft, ma ci siamo divertiti». Era bello, stare ad ascoltare i racconti di basket di Nino. Sarà triste accompagnarlo domani nell’ultimo viaggio, che partirà alle 15.30 dall’Ospedale di Bentivoglio, dove si è spento ieri dopo una malattia che non gli ha dato scampo. Nel firmamento della Virtus, in quello del basket italiano, si è spenta una stella. E a noi non resta che piangere.
Marco Tarozzi
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