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Stankovic, il basket saluta il suo statista

Il segretario Fiba lascia dopo 26 anni

MONACO DI BAVIERA - Negli ultimi giorni a Monaco, prima del trasloco della Federazione internazionale a Ginevra, avvenuto all’inizio di giugno, Boris Stankovic non impacchettava solo scartoffie e faldoni. Nei cassoni, infilava anche i suoi 26 anni da segretario generale. Formalmente a fine 2002, ma di fatto ad agosto dopo il Mondiale di Indianapolis, concluderà il mandato uno dei più grandi dirigenti dello sport, un uomo di basket che ha avuto anche premonizioni da statista. Una su tutte: l’avvicinamento dell’Est e della Russia all’Europa, da lui anticipato con il «basket open». Stankovic ha accettato di raccontare la sua esperienza sportiva, cominciata, da giocatore e da allenatore, nell’era della palla-al-cesto e poi sfociata nella pallacanestro senza frontiere.
Un giudizio secco su se stesso: lei è stato un buon dirigente?
«Lo dicano gli altri. Io ricordo che la Fiba possedeva una stanza e il sottoscritto metteva pure i francobolli sulle buste, mentre oggi ha 35 dipendenti. Oppure che nel ’76 le federazioni erano 138 e oggi sono 212; o che ai Giochi ’96 abbiamo avuto 30.000 spettatori a partita. E da una ricerca della Roper Starch Worldwide, risulta che l’11% della popolazione mondiale gioca a basket».
L’orgoglio e l’errore.
«Con il concetto che non esistono dilettanti e professionisti, ma solo giocatori di basket, ho abbattuto un Muro di Berlino. Che cosa non rifarei? Per 40 anni ho lavorato per i club e poi altri si sono fatti belli con i miei sforzi. Intendo i dirigenti dell’Eurolega? Sì, tanto per parlare chiaro».
Ventisei anni navigando anche nella politica.
«Una cosa che detesto cordialmente, la politica. Non è necessaria, nello sport. Ma la cacciano dentro e, dunque, va seguita. Ho esordito con le tensioni tra Cina e Taiwan, poi è esploso il problema israeliano. Credo di aver trovato una soluzione brillante, con le partite in campo neutro a Bruxelles. Voi italiani dite ‘‘salvare capra e cavoli’’, no? Ecco, è andata proprio così».
Tentato di allacciare una «liaison» con i politici?
«Non sono mai stato troppo vicino a loro: se possibile, li ho evitati. Ho conosciuto Castro, vari presidenti, mi hanno dato la legione d’onore. Ma ho sono sempre stato al di là del vallo, con il basket a fare da cuscinetto».
Ma Stankovic è stato un potente?
«Sì, in senso buono: certe decisioni le ho dovute prendere da solo. Più che potente, ti senti responsabile. Un potente nello sport non deve esistere: si deve essere più generali che soldati».
Soldato o burattinaio? Si è detto che Stankovic manovrava dalla stanza dei bottoni della sua «Spectre»: designava gli arbitri e indicava la squadra che doveva vincere.
«State ridacchiando pure voi...».
Ci fu però lo scandalo di Cassay, arbitro corrotto. E il Real, si narra, faceva trovare donne nei letti degli arbitri...
«A Madrid dicevano la stessa cosa del Simmenthal e di Cesare Rubini...».
Se il basket è «open», è merito suo.
«No, era uno sviluppo logico. Io mi sono solo trovato al posto giusto al momento giusto. Con l’interlocutore adatto: David Stern, capo della Nba».
Verrà un giorno in cui l’Europa darà lezioni agli Usa?
«Guardo lo spagnolo Gasol, miglior esordiente nella stagione Nba, e immagino che sia possibile. I nostri giocatori sono più completi; i professionisti allevano eccellenti specialisti».
Si azzarda: senza la guerra civile, la Jugoslavia unita avrebbe battuto il Dream Team di Barcellona.
«No, avrebbe solo fatto una buona partita. Gli Usa del ’92 erano ‘‘la squadra’’. Poi gli americani hanno abbassato sempre di più la qualità e il resto del mondo l’ha elevata. A Sydney, agli ‘‘umani’’ è mancato un tiro per superare i marziani».
Monaco 1972. Un pasticcio del tavolo ha scatenato un putiferio storico.
«Quell’errore ha fatto la fortuna del basket: lì gli americani hanno perso per colpa dei giudici, ma poi hanno cominciato a perdere sul serio... Psicologicamente, a Monaco si frantumò un tabù».
Europeo 1995, premiazione: i serbi vincono e inneggiano alla loro religione; i croati replicano con il gesto del credo cattolico e lasciano il podio. È quella la vera sconfitta di Boris Stankovic?
«Sì, è andata a pallino la mia idea di sport slegato dalla politica. Quella era pura politica. E ha fatto danni devastanti».
La spaccatura che ha creato l’Uleb: la Fiba non ha capito che cosa stava accadendo.
«Più che altro, il Cio ci aveva assicurato che le federazioni avrebbero mantenuto il primato sui club. Invece accadeva il contrario».
Quale la nuova miniera di talenti del basket?
«Senz’altro la Cina».
Il giocatore-idolo di Stankovic?
«Li ho conosciuti tutti, da West, a Jabbar, a Jordan... Impossibile fare classifiche. Nel mio cuore, però, ha un posto speciale il povero Radivoje Korac».
La Russia si avvicina alla Nato.
«Se permettete, l’ho capito anni fa. E non è un avvicinamento solo militare».
Meglio lo Stankovic dirigente o l’allenatore che nel ’68, allenando il famoso «muro» Burgess-De Simone-Merlati, portava Cantù al primo scudetto?
«Il dirigente, che diamine».
Per chi «potrà» tifare, adesso, Stankovic?
«Resto fedele all’Okk Belgrado, la piccola squadra che resi grande».
Le nazionali hanno ancora un senso?
«La Nba, che manda in scena il suo spettacolo ma non rinuncia al Dream Team, dimostra di sì».
Perché il basket, sport mondiale, conta di meno del calcio?
«Scusate, dove conta di meno?... Secondo il Cio, è tra le cinque federazioni basilari dello sport. Comunque, non mi metto in concorrenza con il pallone. Per un semplice motivo: noi non giochiamo all’aperto, in stadi da 70.000 persone. So solo che quando Kobe Bryant si è esibito a piazza Tienanmen, la polizia non è riuscita a contenere 40.000 tifosi scatenati».
Flavio Vanetti
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