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Shaq porta i Lakers tra gli immortali

Jackson fa tris in California e uguaglia Red Auerbach: nono centro da allenatore

EAST RUTHERFORD (New Jersey) - L’ultimo rimedio possibile consiste nel ricorrere alla genetica. Ovvero: andare a trovare, da qualche parte nel mondo, un gigante di due metri e 20 per 150 chili; modificarne poi il Dna strappando cellule qua e là (Jabbar? Magic? Jordan?) affinché si possa in qualche modo sbarrare il passo al più devastante di tutti i giocatori di basket apparsi sul pianeta terra, Shaquille O’Neal. Gara 4 della finale Nba, nel New Jersey tra Nets e Los Angeles Lakers, ha chiarito una cosa su tutte: finché ci sarà Shaquille, non ci saranno altro che i Lakers a vincere titoli e a calpestare record. Il suo dominio è tale, che a volte ti sembra persino ingiusto e crudele che lo facciano giocare senza imporgli degli handicap . I Lakers hanno così vinto il loro terzo titolo consecutivo e lo hanno fatto persino con indolenza, con annoiata superiorità. Quattro partite, quattro umiliazioni per i Nets che dovrebbero costituire il meglio di tutta la East Conference. Capirai.
Spike Lee, il regista di «He got game» e «Fa la cosa giusta», tifoso giurato dei New York Knicks, ha attraversato il fiume Hudson per godersi lo spettacolo di una finale, roba che al Madison chissà quando tornerà. Ma si è goduto ben poco. Ci diceva: «Vorrei vedere una bella partita, equilibrata, con minuti finali "tirati", nei quali ogni tiro è pesante. Allora sì vedresti il campione autentico prendere in mano il gioco e fare qualcosa di straordinario. Ma con questi Lakers è impossibile. Con questo Shaq, poi, nemmeno pensarci».
Negli ultimi minuti di una partita in cui ai Nets, almeno, era stato chiesto di salvare la faccia, al posto delle giocate thriller c’è stata una festa da cortile: dentro le riserve a tirare da tutte le parti per poi dire, ai nipoti un domani, «quella volta c’ero anch’io». Shaquille ha segnato 34 punti e ha conquistato il terzo trofeo di fila come «Mvp» (miglior giocatore) della finale. Quanto a Phil Jackson, l’uomo che creò i Chicago Bulls di Jordan e Pippen, ha raggiunto quota 9 titoli: come «Red» Auerbach, l’anziano ex coach di Boston (ora presidente onorario dei Celtics) che corre il rischio di essere superato presto. Perché Phil il filosofo (156 vittorie nei playoff, altro primato) non ha intenzione di smettere. Con Shaq appena 30enne, quanti trofei si possono ancora accumulare in soggiorno? Tanti da dover cambiare il soggiorno. Tanti da guadagnarsi l’immortalità.
Per i Lakers è il titolo numero 14, il nono da quando la franchigia abbandonò Minneapolis. Curiosamente, è il loro primo 4-0 in una finale, contro i tre subiti nell’elenco dei sette «cappotti» che si sono registrati nella storia della Nba. Shaq, che ha fatto registrare una media di 37 punti a partita nella serie finale, è il primo giocatore, in 48 anni, a vincere tre titoli consecutivi con la maglia giallo-porpora: in questo ha già fatto meglio di Jabbar e Chamberlain e ha eguagliato il «gigante buono» George Mikan, centro dei Lakers tre volte campioni dal ’52 al ’54. «Ci sentiamo al telefono - confessa Shaq -: lui non sta bene di salute e gli fa piacere parlare con me. Dice che sono un grande, ne sono onorato. Non l’ho mai visto giocare, mi dicono che fosse fantastico. Non mi piace fare i paragoni. È come accostare una Mercedes del 1960 a una di oggi: macchine splendide, ma diverse».
Così, mentre gli avversari immaginano puerili rimedi (Houston spera nel gigante cinese Yao Ming, Orlando vuol rubare Duncan a San Antonio per affiancarlo al talento McGrady), non rimane che fare il gioco dei paragoni. Phil Jackson, Shaquille O’Neal e Kobe Bryant che, non dimentichiamolo, ha 23 anni e ha già tre titoli in tasca. Meglio loro oppure il trio Riley-Magic-Jabbar? C’è chi va oltre, come il quotidiano «Usa Today» che mette Shaq-Kobe a fianco di Lennon-McCartney; Venus-Serena Williams; Butch Cassidy-Sundance Kid. E così via.
Dice Kobe: «Sapremo fra qualche anno quanto valiamo; adesso i confronti sono fuori luogo. Ma quando avremo finito di vincere tutto quello che c’è da vincere, se ne potrà parlare». Gli dà manforte Shaq, che con 145 punti in una serie finale ha scardinato il record di Olajuwon: «Vogliamo le quattro vittorie di fila. Le cerchiamo per Jackson, che diventerebbe il coach migliore di tutti i tempi».
Ciò che si è instaurato a Los Angeles, è qualcosa che va al di là del semplice club di basket. È una confraternita, una sorta di unione consolidata nel sangue. Il Grande Maestro, Phil Jackson, fa meditare i suoi uomini; li sottopone a prove mentali e morali; regala loro libri che devono memorizzare prima di una partita importante. E naturalmente li fa giocare bene, grazie all’attacco "a triangolo", messo a punto dal suo storico assistente, l’81 enne Tex Winter. Confessa Shaquille: «Senza Phil, saremmo ancora qui a lottare per qualificarci nei playoff. Lui è un secondo padre; ha un sistema, di gioco e di vita: se sgarri, perdi».
La prima finale, contro Indiana, fu vinta 4-2. La seconda, contro Philadelphia 4-1. Adesso è 4-0. Le cose sono ogni volta più semplici. Phil Jackson allarga le braccia: «Il fatto è che la squadra ha imparato a vincere correggendosi da sola. A volte non c’è neppure bisogno che parli». Quest’anno Phil ha urlato solo una volta: è stato nella finale della Western Conference, gara 4, quando i Sacramento Kings avevano preso i Lakers per la gola. Quando con un tiro a tempo scaduto Robert Horry (quinto titolo per lui; due li aveva vinti a Houston), ha infilato una tripla incredibile. Shaq: «Non abbiamo mai paura, nemmeno quando da fuori sembriamo spacciati».
Che per altri cinque anni almeno, allora, si parli di Lakers e nient’altro che di Lakers.
Riccardo Romani
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