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D'Antoni: i motivi dell'addio

Il coach della Benetton: «Voglio assistere mio padre»

TREVISO. Mike D'Antoni in settimana farà sapere se resterà o no alla guida della squadra a cui ha regalato due dei tre scudetti vinti in tutta la sua storia: ha voluto lasciare un piccolo spiraglio, attenderà qualche giorno ancora perché, dopo aver incontrato ieri Gherardini e Buzzavo, ora vuole parlare della situazione familiare con i parenti negli Usa. Ma, in cuor suo, la decisione, soffertissima, l'ha già presa.
Mike, che due anni fa, perse la madre, vuole stare vicino al padre Louis, 89 anni, che vive da solo a Mullens ed è sofferente agli occhi. Poi accetterà uno dei posti di assistente ai Phoenix Suns, l'ultima sua società Nba prima di tornare da noi nel 1997. E dunque la Benetton dovrà trovarsi un nuovo coach (Sakota? Tanjevic? Pasquali?). Non è facile affrontare certi argomenti il giorno dopo aver vinto uno straordinario scudetto, applaudito da tutta l'Italia, ma la situazione è esattamente questa: per la seconda volta in 5 anni D'Antoni lascia la squadra subito dopo averla portata al titolo. «Anch'io mi rendo conto che non è una decisione facile - sospira il coach - ma so che devo fare la scelta più giusta, e vi assicuro che non è facile. Per me è stato un anno lungo e difficile, ho pensato molto a cosa è giusto e non lo è. Quando ho capito che avrei dovuto stare accanto a mio padre ho detto al mio agente: guarda, se in America c'è qualcosa per me, devo pur lavorare, non posso stare a casa con le mani in mano. E due-tre club, tra cui i Suns, hanno detto: si può fare. Non sono stati loro a chiamarmi, sono io che li ho cercati, i primi contatti li ho avuti a gennaio-febbraio, quando la situazione familiare si era fatta preoccupante. Fra l'altro, è lo stesso tipo di incarico che avevo prima di tornare alla Benetton, non lo faccio per il prestigio».
Ma un anno fa, quando accettasti di firmare un contratto 3+1 con la Ghirada, non avevi questo tipo di preoccupazioni?
«No, non c'erano, quantomeno non erano così grandi. Oggi mio padre non è autosufficiente e vive da solo, anche se, rispetto a qualche mese fa, sta meglio: ho due fratelli ed una sorella che l'aiutano moltissimo, ma la mia è una scelta personale. Per un periodo ho persino fatto fatica a lavorare, anche se a Treviso mi trovo assolutamente bene, però nella vita esistono anche altre cose, oltre al lavoro».
Insomma, hai già deciso...
«Beh, non ancora. Sull'altro piatto della bilancia c'è l'amicizia, la stima che ho sempre avuto qui, la gran voglia di ricominciare con un gruppo incredibile di giocatori. A lasciare tutto ciò sto veramente male, credetemi. Vorrei fare la cosa giusta per la mia famiglia ma, al tempo stesso, non vorrei abbandonare la Benetton, e comunque per non metterla in difficoltà devo decidere prima possibile. La prossima settimana torno a casa, ma bando alle tristezze, mi va di festeggiare ancora».
Ma è vero che appena tornato da Bologna la prima cosa che hai fatto è aver rivisto la gara?
«Sì, l'ho rivista almeno due-tre volte, è stato troppo bello. E' una squadra ben più forte di quella del '97, capace di vincere quasi sempre in casa delle bolognesi. Il merito va a Gherardini ed alla società: un anno fa, appena tornato dalla Nba, ero un po' incasinato e Maurizio ha fatto tutto da solo, poi io ho cercato di fare il mio lavoro».
Quando hai capito di poter vincere?
«La Benetton punta sempre a vincere, e, se non lo fa, ci va vicina, ma quando è arrivato Bell nessuno si è lamentato se giocava di meno: lì ho capito la forza di una squadra in cui l'11º è una scelta della Nba, ma qui porta gli asciugamani...».
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