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D'Antoni traccia un bilancio

«Mi prendo qualche giorno per riflettere. Cercherò di decidere con intelligenza, ma sarà difficile»

Mike, sinceramente: adesso che cosa succede?
«Mi prendo qualche giorno per riflettere. Cercherò di decidere con intelligenza, ma sarà difficile».
Lo scudetto rivinto, la dimostrazione data al mondo del basket, l’orgoglio di aver opposto un momento positivo, da allenatore vincente, alla furia imbecille di chi non ha accettato il verdetto. Tutto questo, Mike D’Antoni, ha aggiunto alla sua valigia. Una valigia che potrebbe chiudersi di nuovo, adesso. Destinazione Phoenix, o un’altra città della Nba. La seconda separazione tra Mike e Treviso è nell’aria da circa un mese. Ma la ragione è chiara solo adesso: «Di mezzo c’è mio padre. Ha 89 anni, la salute peggiora: sono imbarazzato a lasciare mio fratello e mia sorella soli nel compito di seguirlo. Non so se è possibile trasferirlo in Italia...».
Ecco la verità, umanissima, di Mike. Ecco dalle sue parole la smentita a mille illazioni, prima di una chiacchierata su uno scudetto ancora tutto da gustare.
Mike, nel 1997, quando se ne andò ai Denver Nuggets, lei era libero da vincoli con Treviso. Ora no.
«All’epoca avevo appena rinegoziato il contratto, per una potenziale prosecuzione del mandato. Però è vero, stavolta sono meno libero... Spero di fare la cosa giusta: per me, per la famiglia, per Treviso».
Non crede che Gilberto Benetton s’arrabbierà di brutto?
(smorfia e sguardo dubbioso) «Mi auguro di no. Sono legato da grande amicizia con lui, conosco quello che vuole. Ma io desidererei essere felice. Testa e cuore a posto, per allenare nel migliore dei modi: se resto e non sono a mio agio, non è un affare per nessuno».
Nella Nba per cercare una rivincita, se è corretto dire che D’Antoni non ha sfondato tra i professionisti?
«No, non si tratta di questo, anche se non è sbagliato sostenerlo. Un anno fa ebbi le mie ragioni a scegliere l’Italia; oggi devo considerare altri aspetti e la situazione di papà, innanzitutto».
Allora ha ragione Bogdan Tanjevic, ex c.t. azzurro: la globalizzazione ha contaminato pure il mestiere dell’allenatore e occorre avere sempre pronta la valigia.
«Mio figlio lo pensa di sicuro: cambia amici ogni sei mesi... È l’aspetto brutto del mio lavoro; è il prezzo da pagare per guadagnare bene e per amare il basket».
Chi la riprenderà mai, se dopo un anno se ne va?
«Eh già, è proprio così. Non mi resta che anticipare i tempi. Questa volta mi sono superato con un vero record: scudetto in otto mesi; l’avevamo programmato entro tre anni».
Il papà, d’accordo: però qualcosa l’ha delusa dell’Italia, nella nuova esperienza?
«Non parlo di delusione. Tuttavia mi ero dimenticato che allenare qui significa andare in giro e ricevere sputi in faccia e vagonate di insulti. A mia moglie, sabato a Bologna, hanno tirato addosso di tutto e le hanno rovesciato sul vestito una bottiglia di Coca Cola. Oddio, è sempre stato così. Non si è peggiorato, sotto questo profilo. Ma nella vita non si deve forse migliorare?».
La moneta in faccia ricevuta da suo figlio durante una partita dei playoff ha un peso nella scelta?
«Non vorrei metterla su questo piano. Ma di sicuro non aiuta a rimanere».
Non è ora di mettere radici da qualche parte, soprattutto pensando a Mike jr?
«Sì. Al massimo entro due anni devo decidermi: non voglio che mio figlio cresca senza orizzonti».
Però c’è sempre in lei lo spirito del cowboy che viaggia verso Ovest e pensa di raggiungere nuove frontiere...
«Sono americano e italiano. Sto bene di qui e di là: è quello che mi frega...».
Phoenix, allora?
«Non solo. Ci sono due altre opzioni, che tengo per me. Squadre del Sud, peraltro: il clima è più adatto a papà. Spiego però una cosa: non sono stati i Phoenix a cercarmi, ma è vero il contrario. I giornalisti di balle ne inventano, sapete...?».
«Solo» assistente allenatore: non è un passo indietro?
«Ricomincerei da dove avevo lasciato. E nella vita bisogna accettare anche di arretrare, qualche volta».
È più bello questo scudetto o quello del 1997?
«Tra i due titoli non c’è differenza di emozioni. Ma questa squadra è più forte, ‘‘lunga’’ e completa. E ha vinto in un basket più competitivo. È stata, grazie a Edney, anche una formazione spettacolare e divertente».
Lascia perché il basket italiano non ha futuro...
«No, per nulla: è cresciuto. Ma se non elimina la disorganizzazione pazzesca che lo pervade, fa una brutta fine».
Però è ormai l’Europa il vero contenitore per pensare in grande: concorda?
«Sì. Vedo il basket d’alto livello nelle principali aree metropolitane del continente».
La morale di questa stagione in poche parole...
«Ripeto quelle di Pittis, il capitano: ciascuno ha fatto una rinuncia e tutti hanno avuto spazio. È stato vero soprattutto con l’arrivo di Bell: un gruppo non solido si sarebbe smarrito in stupide gelosie».
D’Antoni novello Edipo: ha vinto la sua Sfinge, quella Virtus che poneva enigmi irrisolvibili all’avversario .
«Ho vinto sei volte su otto contro Messina e, se non erro, cinque su sette con la Fortitudo di Boniciolli. Posso essere orgoglioso?».
Torna in America perché ogni tecnico è narciso e D’Antoni ha sognato di vincere il titolo Nba, un giorno.
«Sì, l’ho sognato. Ma poi si vive nella realtà...».
La volta scorsa l’avevano trattata con la puzza sotto il naso: che cosa vuole questo «Italian coach»?
«Lo metto nel conto. Non mi regaleranno nulla, la Nba è un altro mondo».
Non teme di tornare a vivere negli Usa, dopo l’11 settembre e dopo il riproporsi di minacce chiare?
«No: non bisogna permettere che vincano i terroristi».
Ipotizziamo: rimane.
«Faccio una squadra per vincere l’Eurolega. Ma può pensarlo pure un successore: non dite che lo lascerei nella palta, non è vero».
Benetton le mette sul tavolo un assegno in bianco...
«Non ho mai deciso in base ai soldi: per questo sono ‘‘povero’’...» Risata. Ovviamente.
Flavio Vanetti
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