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Cirelli, un bolognese a Treviso

Il diesse della Benetton parla della fantastica annata: «Un gruppo eccezionale»

Per tutti ormai è «Ciro», ma lui «farebbe arrosto» chi, uno della sua parrocchia di Bologna, gli ha dato questo soprannome. Andrea Cirelli è il direttore sportivo della Benetton campione d'Italia, uno, per dirla alla Pittis, «che si fa un mazzo così dalla mattina alla sera», ma che non compare, per sua scelta, sui giornali. Cirelli, invece, di cose da raccontare ne ha un sacco, anche perchè lui, alla Ghirada, c'è dal 1991.
«Dopo aver trascorso sedici anni alla Fortitudo», attacca Ciro - a Bologna ho iniziato a lavorare a 16 anni, portavo l'acqua e anche il ghiaccio ai giocatori - sono arrivato a Treviso, portato da Beppe De Stefano e qui ho vissuto tutti gli undici trofei vinti dalla Benetton. Nella Marca sto da Dio: la proprietà ti lascia lavorare tranquillamente anche nei momenti bui della stagione. Questa splendida città t'invoglia a lavorare con sempre maggior solerzia 24 ore al giorno. In dodici anni abbiamo creato un modello d'organizzazione invidiato dai maggiori club europei. Avere a disposizione una struttura come la Ghirada è sicuramente un vantaggio, ma è anche vero che anche altre società, vedi Real Madrid, Barcellona e Bologna, vantano impianti simili ai nostri, ma che, invece, non vogliono sfruttare».
Qual è stata la chiave di questo scudetto?
«Il gruppo. Stavamo bene assieme, dentro e fuori dal campo. Anche nei momenti peggiori della stagione, ci siamo sempre ritrovati nel chiuso del nostro Palaverde per esaminare il perchè di una certa sconfitta e non "per colpa di chi". La nostra grande forza, anche dopo le sconfitte in Coppa dei Campioni e in Coppa Italia, è stato ritrovare un gruppo ancora più cementato e che non ha mai voluto mai, a partire dalla proprietà, trovare i colpevoli di una determinata prestazione. Un altro fattore importante è stato rappresentato dalle compagne. Per loro non è stato facile convivere con persone che hanno avuto in testa per 24 ore al giorno il loro pressante lavoro, ma ciò non l'hanno mai fatto pesare».
Parliamo un po' di chi ha lavorato dietro le quinte.
«A parte le splendide ragazze della segreteria, vorrei ricordare in particolare due persone: Cuzzolin e Antenucci. Un amico di Bologna mi ha detto che, l'anno scorso, quando Francesco era alla Kinder, la Virtus correva e non aveva mai avuto un infortunio; quest'anno, invece, sappiamo tutti com'è andata... Con lui come preparatore atletico ci siamo imbattuti solo in piccoli problemi: Francesco è una persona molto preparata e non passa giorno nel quale non tenti di migliorarsi: un grande perfezionista con il quale è stimolante lavorare. Ogni volta che entravo al Palaverde, a conferma della sua grande passione, aveva sempre una questione da pormi. Luca, invece, è riuscito ad entrare completamente nella fiducia dei giocatori, la prima dote fondamentale per un fisioterapista. Uno dei suoi grandi risultati è stato quello di aver recuperato a tempo di record, nei playoff, prima Bulleri e poi Edney».
Tu che non hai mai rinnegato la tua bolognesità cosa pensi dell'invasione di campo al Paladozza?
«Mi sarei vergognato in qualsiasi città europea, non solo a Bologna. Il pubblico della Fortitudo, comunque, non è solo quello: sono convinto che ci sarebbe stato qualcuno anche che avrebbe voluto tributare un applauso ai più forti. Proprio paragonando quest'evento, sono ancora più orgoglioso dei nostri tifosi che, prima di garadue della finale contro la Skipper, si sono alzati in piedi per applaudire Ginobili, il miglior giocatore del campionato. Il nostro pubblico è notevolmente migliorato e pensa sempre di più ad incitare la propria squadra e non a insultare gli avversari».
Qual è il tuo grande sogno?
«Quello di alzare la Coppa dei Campioni a Treviso. Per tre volte ci siamo andati molto vicino, spero che, alla quarta, arrivi finalmente la consacrazione tanto attesa dalla città e dai tifosi».
Dispiaciuto per Mike?
«Mi ha lasciato un vuoto grandissimo, prima a livello umano e, poi, professionale. Ma la vita continua: in questo lavoro mi hanno insegnato a non innamorarmi: cosa dovrei fare ora che se ne sono andati Boki e Skita?...».
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