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Addio star, il basket frena

Prandi, presidente della Lega: "Non possiamo più reggere così, anche da noi un tetto ai salari sul modello Nba"

ANCORA abbastanza forte per sentirsi il secondo sport di squadra, però ad anni luce dal calcio, che pure s´allontana ad alta velocità, il basket ha una prima, drastica emergenza. Spende più di quel che incassa. Così fan tutti, si potrebbe dire: solo che non può durare. Enrico Prandi, dieci anni fa presidente di Reggio Emilia, una vita da manager dell´industria, è stato appena scelto come presidente di Lega più per il secondo requisito che per il primo. Deve far tornare i conti. «Il basket produce perdite – dice -, non colossali, ma costanti, e deve ritrovare l´equilibrio economico. Abbiamo numeri importanti, in termini di fatturato: la serie A muove 100 milioni di euro l´anno, ma ne perde il 10-15%. E´ lì che si deve agire».
Lì, tanto per cambiare, sono gli stipendi degli attori, protagonisti e no. «Negli ultimi due anni è stata questa la voce più dolente. Non possiamo reggere, pagando tanto, e stiamo studiando un tetto salari, sul tipo della Nba, ma con qualche adattamento. Non crediamo che il riequilibrio possa arrivare trovando nuove risorse: poche se ne vedono nel paese. E allora taglieremo le spese». Magari è un problema che si aiuterà da solo perché la voracità della Nba, che sta razziando talenti in tutt´Europa, leverà non meno di dieci giocatori super (e relativi ingaggi) all´Italbasket, da Ginobili a Nachbar, da Jaric a Griffith. Poi si perderà anche qualità, ossia spettacolo. Sul fronte degli arrivi, timori e polemiche sono legati al numero ancora incerto che la legge fisserà per gli extracomunitari; agli italiani che sono sempre meno (e meno protetti); alle fabbriche di passaporti che torneranno a spopolare. Il destino del basket sembra quello: dove s´accende una luce di buona volontà, se ne spegne un´altra poco più in là.
Servirebbe immagine. Bene, cioè male. La Nazionale non s´è qualificata per i Mondiali d´agosto a Indianapolis ed è oggi in tournée in Cina con un suo clone sperimentale. Servirebbero le grandi città. Bene, cioè male: i 1.255 spettatori di media alle partite di Milano sono stati il pubblico peggiore dei 19 di A; né Roma andava oltre i duemila. Le capitali hanno però progetti di ripartenza: bruciato dal pallone napoletano, Corbelli è tornato al vecchio amore dei cestini comprando Milano dal deluso Tacchini; a Roma, il presidente Toti ha presentato ieri l´allenatore Bucchi e il manager-leggenda Brunamonti, anche se la svolta potrà darla solo la riapertura del PalaEur. E, se li vai a contare, gli spettatori del campionato sono stati il 6% in meno dell´anno prima (1.104.075 in totale). Poi, in controtendenza, c´è stata più gente alle coppe, sia europee che Coppa Italia, e ai play-off: come dire che la prima fase, così lunga e acquosa, tira poco. Resterebbe la tv. Quest´anno la Rai ha mostrato, in chiaro, solo 14 gare di campionato (anzi, 14 secondi tempi) dopo le 33 di un anno fa. In tv si va poco e male (724 mila l´audience media) eppure va tenuta stretta. «Ormai ci siamo chiariti che la tv non è una risorsa. I diritti non portano soldi? Pazienza, ci basterebbe una buona visibilità. Ma l´altra verità è che il calcio, negli ultimi due anni, ha lasciato poco a tutti». Già, il calcio inarrivabile è stato soprattutto insaziabile. E forse la crisi è proprio qui. Prima spazzolava la tavola, adesso fa pure il giro sotto, a ripulire le briciole.
Walter Fuochi
Fonte: La Repubblica
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