MILANO — Il dibattito nei salotti del calcio tiene banco da tempo. «In campo - dicono alcuni - ci vanno i giocatori, sono loro che decidono le sorti delle partite». Altri obiettano: «E' l'allenatore a impostare tatticamente la squadra e a dover dare le giuste motivazioni, se le cose vanno male le colpe sono sue».
Passando al basket e parlando di coach, cercare nello spogliatoio, in panchina o dietro le scrivanie, le responsabilità del crollo Olimpia, di una classifica mai così deprimente (solo Imola segue a quattro lunghezze l'Adecco e i playoffi sono un'illusione), di una serie interminabile di delusioni, è come cercare di stabilire il sesso degli angeli. I demeriti per questa stagione fallimentare sono, evidentemente, un po' di tutti, anche se qualcuno non può certo chiamarsi fuori dalle proprie evidenti responsabilità.
Anche nel derby perso con Cantù i giocatori non si sono risparmiati. A differenza della passata stagione in cui alcune partite erano l'istantanea di un gruppo svogliato che sembrava facesse apposta a non impegnarsi a fondo, quest'anno, a parte qualche eccezione, l'impegno non è mai venuto meno. Quello che manca sono la coesione e l'amalgama, il saper sfruttare a vicenda le potenzialità dei compagni e, quando serve, il supplire alle carenze dei singoli.
E qui chi invoca le responsabilità di tecnici e dirigenti trova il bersaglio a occhi chiusi. Il roster dell'Olimpia è mal assortito, è scoperto in alcuni ruoli, manca un play vero, una copertura difensiva su Bullock, le ali sono troppo piccole e fragili, anche sotto canestro, tolto Rusconi, il pacchetto è leggerino. Impietosa e spietata, l'Oregon ha messo in luce ognuna di queste carenze, frutto, è sin troppo evidente, di una errata costruzione e gestione della squadra.
Dan Peterson ha parlato di mancanza di convinzione, di incapacità a esprimersi sui valori che sono dovuti, di poca abitudine a vincere. Forse, ci fosse stato lui in panchina, queste caratteristiche sarebbero state quelle su cui costruire la scalata ai playoff. Cosa deve fare un allenatore se non motivare, infondere sicurezza, caricare i propri giocatori, fare gruppo e lavorare per mettere in condizione il singolo di dare il massimo? In questi mesi nulla è cambiato, nonostante l'inserimento di un fuoriclasse come Bullock, di un lottatore come Shaw e di un buon attacante come Turner.
Senza programma, senza idee e senza strategia l'Olimpia rischia davvero la retrocessione. Parola che fa venire la pelle d'oca solo ad ascoltarla, che non si trasformerà in realtà grazie all'involuzione irreversibile di Imola, ma che resta uno spettro capace di rendere complicata anche la tanto sbandierata rivoluzione societaria.
Maurizio Trezzi
Passando al basket e parlando di coach, cercare nello spogliatoio, in panchina o dietro le scrivanie, le responsabilità del crollo Olimpia, di una classifica mai così deprimente (solo Imola segue a quattro lunghezze l'Adecco e i playoffi sono un'illusione), di una serie interminabile di delusioni, è come cercare di stabilire il sesso degli angeli. I demeriti per questa stagione fallimentare sono, evidentemente, un po' di tutti, anche se qualcuno non può certo chiamarsi fuori dalle proprie evidenti responsabilità.
Anche nel derby perso con Cantù i giocatori non si sono risparmiati. A differenza della passata stagione in cui alcune partite erano l'istantanea di un gruppo svogliato che sembrava facesse apposta a non impegnarsi a fondo, quest'anno, a parte qualche eccezione, l'impegno non è mai venuto meno. Quello che manca sono la coesione e l'amalgama, il saper sfruttare a vicenda le potenzialità dei compagni e, quando serve, il supplire alle carenze dei singoli.
E qui chi invoca le responsabilità di tecnici e dirigenti trova il bersaglio a occhi chiusi. Il roster dell'Olimpia è mal assortito, è scoperto in alcuni ruoli, manca un play vero, una copertura difensiva su Bullock, le ali sono troppo piccole e fragili, anche sotto canestro, tolto Rusconi, il pacchetto è leggerino. Impietosa e spietata, l'Oregon ha messo in luce ognuna di queste carenze, frutto, è sin troppo evidente, di una errata costruzione e gestione della squadra.
Dan Peterson ha parlato di mancanza di convinzione, di incapacità a esprimersi sui valori che sono dovuti, di poca abitudine a vincere. Forse, ci fosse stato lui in panchina, queste caratteristiche sarebbero state quelle su cui costruire la scalata ai playoff. Cosa deve fare un allenatore se non motivare, infondere sicurezza, caricare i propri giocatori, fare gruppo e lavorare per mettere in condizione il singolo di dare il massimo? In questi mesi nulla è cambiato, nonostante l'inserimento di un fuoriclasse come Bullock, di un lottatore come Shaw e di un buon attacante come Turner.
Senza programma, senza idee e senza strategia l'Olimpia rischia davvero la retrocessione. Parola che fa venire la pelle d'oca solo ad ascoltarla, che non si trasformerà in realtà grazie all'involuzione irreversibile di Imola, ma che resta uno spettro capace di rendere complicata anche la tanto sbandierata rivoluzione societaria.
Maurizio Trezzi