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Meneghin, l’Olimpiade non poteva arrendersi

«Noi italiani eravamo vicini alla palazzina dell’aggressione: non avevamo paura, ma eravamo increduli»

Lui c’era. «E soprattutto ero molto vicino al luogo dell’aggressione: la spedizione italiana, infatti, alloggiava nei pressi della palazzina degli israeliani. Saranno stati, all’incirca, duecento metri in linea d’aria...». Trent’anni dopo, quel maledetto 5 settembre 1972 è sempre nitido nella memoria di Dino Meneghin, il «nome» della pallacanestro italiana. Meneghin a Monaco partecipava alla seconda delle quattro Olimpiadi in cui sarebbe stato protagonista. Ma se in Messico, nel 1968, era appena un diciottenne fresco di lancio, anche se tanti avrebbero voluto vederlo già titolare, nell’edizione bavarese dei Giochi si vedeva in azione un Meneghin ormai campione fatto e finito, vincitore di scudetti e coppe con Varese. «Quella, oltretutto, era un’Italia forte e ben assortita, anche se non riuscì ad andare sul podio. Gli Stati Uniti ci triturarono rifilandoci trenta punti e lasciandocene segnare solo trentotto, uno dei minimi nella storia azzurra; ma contro Cuba, nella finale per il bronzo, sbagliammo un contropiede facile e perdemmo di un punto».
Eppure quel ricordo sportivo - tutto sommato una memoria positiva e da custodire, dato che non capita tutti i giorni (men che meno agli epigoni attuali di Dino) di finire quarti all’Olimpiade - sparisce davanti alle immagini che quel giorno si pararono davanti agli occhi: «Vi assicuro che sono sempre nitide, come scolpite. A riparlarne, provo il brulicare di sensazioni che mi percorrevano allora, mentre ci raccontavano gli sviluppi della vicenda».
L’attacco avvenne alle 4 del mattino. Tuttavia gli italiani non si accorsero di nulla fino a quando, qualche ora più tardi, si svegliarono. «La situazione era tesa, ma apparentemente calma: i terroristi erano entrati e già avevano ucciso, però quando ci avvertirono di quello che stava succedendo, si era in una fase di relativa stasi. Le trattative erano appena cominciate ed erano già in stallo. Solo alla sera, rientrando dall’allenamento, percepimmo che gli eventi non stavano prendendo una bella piega, ammesso che fosse possibile scordare i due morti che c’erano già stati: ci fecero strisciare lungo un muro per garantirci protezione. Eravamo increduli».
Ma non timorosi. «No, non avevamo paura. Era più forte lo sconcerto che derivava dal capire che qualcosa si era rotto: era l’idea di sport come oasi di pace e di tolleranza. Pensavo che, almeno nel nostro "pianeta", i popoli potessero essere uniti. Invece la violenza, la politica, gli aspetti brutti della vita, avevano invaso e devastato. Purtroppo l’Olimpiade da quel giorno sarebbe stata anche una questione di check point, metal detector, aree blindate, armi a vista per proteggere gli atleti. E sarà sempre peggio, purtroppo... A volte immagino che cosa sarebbero stati i Giochi senza l’episodio di Monaco: forse avremmo respirato ancora un’aria nobile e idilliaca. Sì, la realtà ha dato allo sport uno schiaffo pesante».
Anche le polemiche di quei giorni non sono definitivamente tramontate. «I tedeschi sbagliarono la risposta militare? Se ne sono dette tante, ma di sicuro quello che ci colpì fu la loro voglia di spaccare tutto e in fretta. Forse sarebbe stato più prudente trattare a oltranza». Su una cosa, comunque, Meneghin ha pochi dubbi: «Credo sia stato giusto completare l’Olimpiade. I Giochi e lo sport non dovevano arrendersi: se lo avessero fatto, l’avrebbero data vinta a chi predicava il terrore. Saremmo caduti in un precedente gravissimo, anziché tentare di voltare pagina».
Flavio Vanetti
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