INDIANAPOLIS - Secondo molti americani del Midwest, l’Argentina sarebbe un posto che sta a sud del Messico, dove si parla spagnolo e ci sono un sacco di vacche come in Texas: un Paese di cui si parla perché l’economia fa schifo e allora sono guai anche per Wall Street. Quasi nessuno, se non gli addetti ai lavori, sapeva che in Argentina si gioca bene anche a basket. Ci è voluta una partita, l’altra notte a Indianapolis, per fare una scoperta un po’ brutale: che non solo l’Argentina ha una squadra che gioca bene, ma che è pure capace di battere quello che ancora qui si ostinano a chiamare Dream Team, la squadra da sogno composta da stelle miliardarie della Nba. Sottolineare la data: 4 settembre 2002: risultato 87-80. Non solo: mai una volta gli americani sono stati avanti nel punteggio; mai hanno dato l’impressione di potercela fare. Annientati da un pugno di bravi professionisti trascinati da Emanuel Ginobili, l’ex ragazzo della Virtus che fra un mese indosserà la maglia Nba dei San Antonio Spurs. Regista dell’impresa la guardia Pepe Sanchez, ex universitario di Temple, scartato a più riprese dalla Nba, che dal ritiro dell’Embassy Suite Hotel di Indianapolis dedica il successo a nome di tutti: il destinatario è Diego Maradona, musa ispiratrice di ogni vittoria. Tant’è che sui quotidiani di Buenos Aires si paragona la soddisfazione per la vittoria sugli Usa di basket, all’umiliazione inflitta all’Inghilterra per il mondiale di calcio del 1986: la celebre rete guidata dalla «la mano de dios»...
Naturalmente sapere che il Dream Team è crollato dopo 58 vittorie consecutive, alcune con distacchi sgarbati, fa piacere a molti. Il fatto che ciò sia accaduto a domicilio, è ancora più divertente. Combinazione: a Indianapolis, 15 anni fa, la nazionale Usa venne sconfitta in modo clamoroso dal Brasile di Oscar. Un’umiliazione. Erano i Giochi Panamericani, ma fu lì che la Federazione Usa decise di passare ai professionisti della Nba inventandosi il primo Dream Team.
E adesso, nella terra di John Wooden, Larry Bird e Oscar Robertson, a pochi metri dalla mitica università di Indiana, quella di Bobby Knight, si abbatte sugli Usa un imbarazzo planetario. Impaccio peggiorato dallo stile assolutamente assente dei protagonisti: Reggie Miller, anni 37, stella da 30 miliardi di stipendio coi Pacers, la vede così: «Abbiamo tutti contro. Compresi gli arbitri». Stessa solfa con Finley di Dallas: «È ovvio che adesso abbiamo dato soddisfazione a tutti. Ma state tranquilli, l’oro lo vinciamo noi». Molto probabile, ma la lezione resta. Tanto più che gli arbitri e i complotti c’entrano poco. George Karl, il coach, almeno lui, ha un moto di decoro: «Complimenti all’Argentina, ci ha battuto in ogni settore. Pensiamo al futuro. Il mondo sta trovando le contromisure. E noi ci siamo preparati poco. La difesa andrebbe registrata».
Vero è che quando il Dream Team era veramente da sogno (Jordan, Magic, Bird ecc.) di difendere non importava a nessuno. Ma i tempi cambiano, e gente come Baron Davis, Jermain O’Neal (uno che sa perdere: ha preso a calci Scola dopo una stoppata...) e Paul Pierce (un gentleman: voleva pestare Sconochini), ovvero tutti talenti in ascesa, dovranno prepararsi mentalmente a soffrire un po’ di più se non vogliono farsi ridere dietro. Infatti Davis commenta: «Ce li aspettavamo un po’ meno forti». Neppure gli organi di informazione l’hanno presa bene, se è vero che la rete di solo sport Espn si affretta trasmettere la lista degli indisponibili: da Shaq a Kobe Bryant; da Iverson a Jason Kidd. Senza però aggiungere che quasi tutti i citati hanno declinato l’invito inventandosi qualche malattia contagiosa, pur di stare alla larga da Indianapolis. Dunque, fatti loro. Non sarà un caso se oggi, improvvisamente, una pattuglia di squadre Nba chiede informazioni riguardo i dieci argentini impertinenti. Si scopre pure che Pepe Sanchez, il «rifiutato», sarebbe in realtà già da tempo «nell’agenda di molti scout» ed avrebbe un contratto per due anni già pronto coi Detroit Pistons. Potenza delle vittorie.
Mesta consolazione all’italiana: l’ossatura della squadra che ha scioccato il mondo, si è fatta una reputazione nel nostro campionato. Reggio Calabria è stata la prima a scoprire lo spessore dei talenti argentini, reclutando Sconochini (tornato a Milano, all’Olimpia), e poi anche Montecchia e Palladino, senza dover citare Ginobili. Lo sanno anche a Varese dove si punta su Federico Marin, guardia ventenne di due metri che di Ginobili sembra la replica: non a caso i lombardi hanno scuole e talent scout sparsi proprio a Buenos Aires. Adesso sotto con le partite che valgono il podio. Per molte nazionali, Argentina su tutte, il più è fatto, comunque vada. Per gli Usa, snobbati dai loro stessi tifosi (mai piena la Conseco Arena di Indianapolis) non è questione di medaglia d’oro: si tratta solo di salvare la faccia.
Riccardo Romani
Naturalmente sapere che il Dream Team è crollato dopo 58 vittorie consecutive, alcune con distacchi sgarbati, fa piacere a molti. Il fatto che ciò sia accaduto a domicilio, è ancora più divertente. Combinazione: a Indianapolis, 15 anni fa, la nazionale Usa venne sconfitta in modo clamoroso dal Brasile di Oscar. Un’umiliazione. Erano i Giochi Panamericani, ma fu lì che la Federazione Usa decise di passare ai professionisti della Nba inventandosi il primo Dream Team.
E adesso, nella terra di John Wooden, Larry Bird e Oscar Robertson, a pochi metri dalla mitica università di Indiana, quella di Bobby Knight, si abbatte sugli Usa un imbarazzo planetario. Impaccio peggiorato dallo stile assolutamente assente dei protagonisti: Reggie Miller, anni 37, stella da 30 miliardi di stipendio coi Pacers, la vede così: «Abbiamo tutti contro. Compresi gli arbitri». Stessa solfa con Finley di Dallas: «È ovvio che adesso abbiamo dato soddisfazione a tutti. Ma state tranquilli, l’oro lo vinciamo noi». Molto probabile, ma la lezione resta. Tanto più che gli arbitri e i complotti c’entrano poco. George Karl, il coach, almeno lui, ha un moto di decoro: «Complimenti all’Argentina, ci ha battuto in ogni settore. Pensiamo al futuro. Il mondo sta trovando le contromisure. E noi ci siamo preparati poco. La difesa andrebbe registrata».
Vero è che quando il Dream Team era veramente da sogno (Jordan, Magic, Bird ecc.) di difendere non importava a nessuno. Ma i tempi cambiano, e gente come Baron Davis, Jermain O’Neal (uno che sa perdere: ha preso a calci Scola dopo una stoppata...) e Paul Pierce (un gentleman: voleva pestare Sconochini), ovvero tutti talenti in ascesa, dovranno prepararsi mentalmente a soffrire un po’ di più se non vogliono farsi ridere dietro. Infatti Davis commenta: «Ce li aspettavamo un po’ meno forti». Neppure gli organi di informazione l’hanno presa bene, se è vero che la rete di solo sport Espn si affretta trasmettere la lista degli indisponibili: da Shaq a Kobe Bryant; da Iverson a Jason Kidd. Senza però aggiungere che quasi tutti i citati hanno declinato l’invito inventandosi qualche malattia contagiosa, pur di stare alla larga da Indianapolis. Dunque, fatti loro. Non sarà un caso se oggi, improvvisamente, una pattuglia di squadre Nba chiede informazioni riguardo i dieci argentini impertinenti. Si scopre pure che Pepe Sanchez, il «rifiutato», sarebbe in realtà già da tempo «nell’agenda di molti scout» ed avrebbe un contratto per due anni già pronto coi Detroit Pistons. Potenza delle vittorie.
Mesta consolazione all’italiana: l’ossatura della squadra che ha scioccato il mondo, si è fatta una reputazione nel nostro campionato. Reggio Calabria è stata la prima a scoprire lo spessore dei talenti argentini, reclutando Sconochini (tornato a Milano, all’Olimpia), e poi anche Montecchia e Palladino, senza dover citare Ginobili. Lo sanno anche a Varese dove si punta su Federico Marin, guardia ventenne di due metri che di Ginobili sembra la replica: non a caso i lombardi hanno scuole e talent scout sparsi proprio a Buenos Aires. Adesso sotto con le partite che valgono il podio. Per molte nazionali, Argentina su tutte, il più è fatto, comunque vada. Per gli Usa, snobbati dai loro stessi tifosi (mai piena la Conseco Arena di Indianapolis) non è questione di medaglia d’oro: si tratta solo di salvare la faccia.
Riccardo Romani