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È caduto un tabù, adesso nulla sarà come prima

Troppo sicuri di sé, gli americani hanno ridotto sempre di più la qualità della loro squadra

Il vento della storia è dunque passato per Indianapolis e ha cancellato forse l’ultimo grande tabù dello sport: l’imbattibilità dei professionisti Usa del basket. La svolta epocale, firmata da un manipolo di argentini, quattro dei quali sono figli della serie A italiana, assomiglia a quella che, nel 1983, mise a soqquadro la vela: gli australiani sconfissero gli statunitensi e soffiarono loro la Coppa America, la più antica manifestazione sportiva. Mai, dal 1851, gli Usa l’avevano persa. E si tramandava il tanto famoso quanto truce aneddoto secondo il quale la testa del primo skipper battuto avrebbe rimpiazzato il trofeo nella bacheca. Ora, non crediamo che George Karl, l’allenatore dei Milwaukee Bucks con trascorsi al Real Madrid che ha vissuto l’incancellabile disfatta, rischi di vedere la sua testa finire nel canestro al posto del pallone. Però da oggi nel basket nulla sarà più uguale a prima: la cesura di Indianapolis conclude l’era antecedente il crollo del mito e ne apre una nuova, tutta da scrivere.
Curiosamente la capitale dell’Indiana, stato «consacrato» al basket per la passione della gente e per la miriade di personaggi che ha prodotto, è di nuovo un crocevia per la pallacanestro statunitense. Lì, nel 1987, il Brasile di Oscar trionfò nei «Panamericani»: quel giorno tra i maestri cominciò a prendere corpo l’idea di non farsi più rappresentare, negli eventi principali, da selezioni universitarie, ancorché d’alto lignaggio. La convinzione si rafforzò l’anno dopo ai Giochi di Seul (k.o. dall’Urss di Sabonis) e si consolidò al Mondiale ’90 in Argentina, quando una Jugoslavia ancora unita diede un terribile schiaffo ai protervi giovanotti a stelle e strisce.
Certo, prima di arrivare al varo del Dream Team, anzi al Dream Team dell’Olimpiade ’92, un’arma totale, spettacolare ed esagerata, sarebbe stato necessario passare attraverso l’abbattimento della barriera tra dilettanti e «pro». È stato Boris Stankovic, che a Indianapolis conclude 26 anni da segretario generale della federbasket internazionale, a intuire che quelle erano le due facce della stessa medaglia. Stankovic mise in conto anni di batoste, ma anche una lenta cucitura del divario da parte del resto del mondo. Tra i club, all’Open di Barcellona del ’90, andò vicino al colpo la Pesaro allenata da Sergio Scariolo: solo al supplementare cedette ai Knicks. Invece tra le nazionali, nella semifinale dei Giochi di Sydney ai lituani mancò giusto il canestro all’ultimo tiro per piegare la selezione Nba. In questi anni gli americani hanno ridotto sempre di più la qualità del loro Dream Team: erano sicuri di sé. Troppo. Oggi sappiamo che una squadra media dei professionisti può perdere non dagli jugoslavi, i teorici primi avversari degli Usa, ma da dodici, bravissimi argentini. È il nuovo parametro da cui si riparte.
Flavio Vanetti
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