Gilberto Benetton, è vero che il vostro gruppo è pronto a «vestire» l’Italia anche ai Giochi 2004 e a quelli invernali 2006? «Non sono in grado di dire nulla di definitivo in proposito. C’è, in effetti, una proposta, ma la stiamo ancora valutando».
Voi, cultori dello sport alternativo al calcio, diventerete insomma, di fatto, i tutori di un patrimonio di campioni e di speranze olimpiche.
«Una premessa. Qualora l’accordo dovesse andare in porto, difficilmente sarà siglato come Benetton. Mi sento già di escluderlo, perché il nome Benetton non ha mai avuto alcun rapporto stretto con lo sport internazionale. Più facile che si ricorra alla stessa soluzione di Sydney, con un marchio del gruppo, ad esempio di nuovo Playlife. E per finire, non ci sentiamo i salvatori di nulla e di nessuno. Anche perché sarebbe sbagliato il ruolo: non compete a un’azienda privata».
Sì, ma il Coni è messo male.
«È vero. Ha commesso l’errore storico di fidarsi degli introiti del Totocalcio, ma ora ha fatto quello che c’era da fare: la cura dimagrante. Da imprenditore dico che si potrebbe ancora razionalizzare parecchio, però l’operazione è stata drastica ed è rimasto giusto l’osso. Il problema non è più solo del Coni, ma dell’Italia intera: uno sport in ginocchio lascia una pessima immagine. Da evitare».
Il riassetto varato dal governo, un piano che non garantisce più nulla a priori ma che stabilisce che i finanziamenti devono essere valutati di anno in anno, è corretto?
«Tutto sommato sì».
Ma quale imprenditore, posto che lo sport deve essere una grande azienda, accetta di programmare senza riferimenti sicuri, perlomeno nel medio periodo?
«Mi pare che oggi in Italia il capitolo "entrate" faccia acqua da tutte le parti. Lo sport non fa eccezione e, quindi, deve essere responsabilizzato: non si può più spendere a vanvera, certi tempi sono passati. Nel contempo, occorre lavorare di ingegno e fantasia per aumentare gli introiti. Credo che il movimento vada ripensato dalla base. Il Paese è in una fase di passaggio: i privati hanno già razionalizzato, lo sport no».
L’azienda sport è in crisi, ma lo è ancora di più il suo cuore: il calcio.
«Gli errori partono dalle società e dai presidenti. Se fossi stato in loro, mai e poi mai avrei autorizzato certi passaggi, mai e poi mai avrei gonfiato ingaggi e apparato. Solo la Juventus non ha mai perso la testa e ha fatto una politica con i piedi per terra, tant’è che è l’unico club ad avere, da alcuni anni, i bilanci in attivo o in pareggio».
Alcune società hanno scaricato la colpa della situazione alle televisioni che hanno tagliato le quotazioni per i diritti.
«Troppo comodo dirlo adesso. Nessuno ha capito che la televisione è stata un mezzo per arrivare all’eccesso e che non è stato nemmeno usato il criterio del buon padre di famiglia che mette in conto i periodi di magra».
Finalmente la serie A è partita.
«Sì, ma i problemi rimangono. Ne riparliamo tra un anno...».
Lei dà ragione allora ai piccoli club?
«Non in assoluto: grandi e piccoli hanno ragioni e torti. Però dopo tante belle parole spese l’anno scorso, non ho visto nessuno imitare il modello Chievo».
Non crede che certe cifre e certe situazioni del calcio siano offensive proprio nei confronti delle altre discipline e di chi, come i Benetton, le aiuta?
«Non c’è dubbio. Mi sono sentito personalmente insultato nel leggere che il pallone reclamava sgravi fiscali».
Nostalgia della Formula 1?
«No, perché in fondo non è mai stato uno sport amato, da noi. Sarò sincero: l’abbiamo considerato soprattutto un eccellente affare».
Nemmeno di Schumacher, ha nostalgia?
«Per noi è stato un fatto storico averlo e lanciarlo. Ma se è diventato Schumacher, il merito è suo. Anche alla Minardi, giusto per dire e con il massimo rispetto per quella scuderia, prima o poi sarebbe esploso».
Non crede che avete perso troppo presto la gallina dalle uova d’oro...?
«Era inevitabile che Schumi approdasse alla Ferrari o in un’altra grande scuderia: noi avevamo già fatto il massimo, in rapporto al suo talento. Ricordo la prima volta che lo conobbi di persona. Eravamo all’inaugurazione di un nostro negozio a Berlino: era esposta la vettura, che tutti guardavano, e c’era lui che firmava autografi, quasi ignorato dai tedeschi. A tavola io parlai benissimo di Senna, che ammiravo, ma Micheal, con quelle smorfie che usa quando si sente sicuro di sé, mi fece capire che lui si considerava più forte. Dissi a un mio collaboratore: ma chi abbiamo mai ingaggiato?».
Non è che magari un giorno vi vedremo sponsorizzare la Ferrari?
«Lo escludo. La Formula 1 è un gioco troppo costoso. Non avrebbe logica, anche se ora mi considero il primo tifoso della Ferrari».
E di Schumacher?
«Anche di lui, certo».
Ma quale pilota le piace, adesso, a parte «Kaiser Michael»?
«Montoya. Ha una gran bella "faccia", nel senso del carattere».
Basket e volley maschili, due dei «vostri» sport di squadra, avranno mai più un colpo d’ala?
«Temo di no, anche se adesso il volley, in attesa del risultato del Mondiale maschile, trarrà vantaggi dall’impresa iridata delle donne. Sono però pessimista, non vedo nulla all’orizzonte. Ma il basket ha il grande contenitore dell’Europa: credo che si arriverà, inevitabilmente, a un torneo continentale sempre più importante e primario rispetto al campionato nazionale. Senza questo sfogo europeo, il basket non starà più in piedi».
Il messaggio viene anche dal Mondiale di Indianapolis e dalle scelte Nba, dove due vostri giocatori sono stati primissime scelte.
«Sì, il Mondiale ha celebrato la forza del basket europeo. E sapete che cosa ho provato quando ho visto Tskitishvili e Nachbar ricevere le magliette dei rispettivi club Nba? Orgoglio e la certezza che, in questo modo, il nostro impegno nel basket ha un senso».
La televisione è un mezzo che ha condotto all’eccesso: nessuno lo ha capito
La cura dimagrante è stata drastica, ma ci sarebbe ancora da razionalizzare
Lo conobbi e mi parve troppo sicuro di sé. Chiesi: ma chi abbiamo preso?
I «pro» ingaggiano giocatori di Treviso: il nostro impegno nel basket ha un senso
PRATICA IL GOLF Gilberto Benetton, 61 anni, è il secondo dei quattro fratelli (il maggiore è Luciano, ci sono poi Carlo e Giuliana) che hanno creato a Treviso un gruppo imprenditoriale vincente. Gilberto, appassionato golfista, presidente di «Edizione holding», finanziaria di famiglia, è anche al vertice della Verdesport, la società che ha preso sotto l’ala lo sport trevigiano.
STORIE DI TRIONFI
Benetton a Treviso lega il suo nome al basket (3 scudetti, 2 Coppe Coppe, oltre a trofei minori), al volley maschile (5 scudetti, varie coppe europee) e al rugby (vinti 7 dei 9 titoli della storia del club).
L’OLIMPIADE
Il Gruppo Benetton con il marchio Playlife ha anche «vestito» la spedizione olimpica azzurra a Sydney. L’operazione potrebbe essere ripetuta nel 2004 e ai Giochi invernali 2006.
Flavio Vanetti
Voi, cultori dello sport alternativo al calcio, diventerete insomma, di fatto, i tutori di un patrimonio di campioni e di speranze olimpiche.
«Una premessa. Qualora l’accordo dovesse andare in porto, difficilmente sarà siglato come Benetton. Mi sento già di escluderlo, perché il nome Benetton non ha mai avuto alcun rapporto stretto con lo sport internazionale. Più facile che si ricorra alla stessa soluzione di Sydney, con un marchio del gruppo, ad esempio di nuovo Playlife. E per finire, non ci sentiamo i salvatori di nulla e di nessuno. Anche perché sarebbe sbagliato il ruolo: non compete a un’azienda privata».
Sì, ma il Coni è messo male.
«È vero. Ha commesso l’errore storico di fidarsi degli introiti del Totocalcio, ma ora ha fatto quello che c’era da fare: la cura dimagrante. Da imprenditore dico che si potrebbe ancora razionalizzare parecchio, però l’operazione è stata drastica ed è rimasto giusto l’osso. Il problema non è più solo del Coni, ma dell’Italia intera: uno sport in ginocchio lascia una pessima immagine. Da evitare».
Il riassetto varato dal governo, un piano che non garantisce più nulla a priori ma che stabilisce che i finanziamenti devono essere valutati di anno in anno, è corretto?
«Tutto sommato sì».
Ma quale imprenditore, posto che lo sport deve essere una grande azienda, accetta di programmare senza riferimenti sicuri, perlomeno nel medio periodo?
«Mi pare che oggi in Italia il capitolo "entrate" faccia acqua da tutte le parti. Lo sport non fa eccezione e, quindi, deve essere responsabilizzato: non si può più spendere a vanvera, certi tempi sono passati. Nel contempo, occorre lavorare di ingegno e fantasia per aumentare gli introiti. Credo che il movimento vada ripensato dalla base. Il Paese è in una fase di passaggio: i privati hanno già razionalizzato, lo sport no».
L’azienda sport è in crisi, ma lo è ancora di più il suo cuore: il calcio.
«Gli errori partono dalle società e dai presidenti. Se fossi stato in loro, mai e poi mai avrei autorizzato certi passaggi, mai e poi mai avrei gonfiato ingaggi e apparato. Solo la Juventus non ha mai perso la testa e ha fatto una politica con i piedi per terra, tant’è che è l’unico club ad avere, da alcuni anni, i bilanci in attivo o in pareggio».
Alcune società hanno scaricato la colpa della situazione alle televisioni che hanno tagliato le quotazioni per i diritti.
«Troppo comodo dirlo adesso. Nessuno ha capito che la televisione è stata un mezzo per arrivare all’eccesso e che non è stato nemmeno usato il criterio del buon padre di famiglia che mette in conto i periodi di magra».
Finalmente la serie A è partita.
«Sì, ma i problemi rimangono. Ne riparliamo tra un anno...».
Lei dà ragione allora ai piccoli club?
«Non in assoluto: grandi e piccoli hanno ragioni e torti. Però dopo tante belle parole spese l’anno scorso, non ho visto nessuno imitare il modello Chievo».
Non crede che certe cifre e certe situazioni del calcio siano offensive proprio nei confronti delle altre discipline e di chi, come i Benetton, le aiuta?
«Non c’è dubbio. Mi sono sentito personalmente insultato nel leggere che il pallone reclamava sgravi fiscali».
Nostalgia della Formula 1?
«No, perché in fondo non è mai stato uno sport amato, da noi. Sarò sincero: l’abbiamo considerato soprattutto un eccellente affare».
Nemmeno di Schumacher, ha nostalgia?
«Per noi è stato un fatto storico averlo e lanciarlo. Ma se è diventato Schumacher, il merito è suo. Anche alla Minardi, giusto per dire e con il massimo rispetto per quella scuderia, prima o poi sarebbe esploso».
Non crede che avete perso troppo presto la gallina dalle uova d’oro...?
«Era inevitabile che Schumi approdasse alla Ferrari o in un’altra grande scuderia: noi avevamo già fatto il massimo, in rapporto al suo talento. Ricordo la prima volta che lo conobbi di persona. Eravamo all’inaugurazione di un nostro negozio a Berlino: era esposta la vettura, che tutti guardavano, e c’era lui che firmava autografi, quasi ignorato dai tedeschi. A tavola io parlai benissimo di Senna, che ammiravo, ma Micheal, con quelle smorfie che usa quando si sente sicuro di sé, mi fece capire che lui si considerava più forte. Dissi a un mio collaboratore: ma chi abbiamo mai ingaggiato?».
Non è che magari un giorno vi vedremo sponsorizzare la Ferrari?
«Lo escludo. La Formula 1 è un gioco troppo costoso. Non avrebbe logica, anche se ora mi considero il primo tifoso della Ferrari».
E di Schumacher?
«Anche di lui, certo».
Ma quale pilota le piace, adesso, a parte «Kaiser Michael»?
«Montoya. Ha una gran bella "faccia", nel senso del carattere».
Basket e volley maschili, due dei «vostri» sport di squadra, avranno mai più un colpo d’ala?
«Temo di no, anche se adesso il volley, in attesa del risultato del Mondiale maschile, trarrà vantaggi dall’impresa iridata delle donne. Sono però pessimista, non vedo nulla all’orizzonte. Ma il basket ha il grande contenitore dell’Europa: credo che si arriverà, inevitabilmente, a un torneo continentale sempre più importante e primario rispetto al campionato nazionale. Senza questo sfogo europeo, il basket non starà più in piedi».
Il messaggio viene anche dal Mondiale di Indianapolis e dalle scelte Nba, dove due vostri giocatori sono stati primissime scelte.
«Sì, il Mondiale ha celebrato la forza del basket europeo. E sapete che cosa ho provato quando ho visto Tskitishvili e Nachbar ricevere le magliette dei rispettivi club Nba? Orgoglio e la certezza che, in questo modo, il nostro impegno nel basket ha un senso».
La televisione è un mezzo che ha condotto all’eccesso: nessuno lo ha capito
La cura dimagrante è stata drastica, ma ci sarebbe ancora da razionalizzare
Lo conobbi e mi parve troppo sicuro di sé. Chiesi: ma chi abbiamo preso?
I «pro» ingaggiano giocatori di Treviso: il nostro impegno nel basket ha un senso
PRATICA IL GOLF Gilberto Benetton, 61 anni, è il secondo dei quattro fratelli (il maggiore è Luciano, ci sono poi Carlo e Giuliana) che hanno creato a Treviso un gruppo imprenditoriale vincente. Gilberto, appassionato golfista, presidente di «Edizione holding», finanziaria di famiglia, è anche al vertice della Verdesport, la società che ha preso sotto l’ala lo sport trevigiano.
STORIE DI TRIONFI
Benetton a Treviso lega il suo nome al basket (3 scudetti, 2 Coppe Coppe, oltre a trofei minori), al volley maschile (5 scudetti, varie coppe europee) e al rugby (vinti 7 dei 9 titoli della storia del club).
L’OLIMPIADE
Il Gruppo Benetton con il marchio Playlife ha anche «vestito» la spedizione olimpica azzurra a Sydney. L’operazione potrebbe essere ripetuta nel 2004 e ai Giochi invernali 2006.
Flavio Vanetti