AVVOCATO Porelli, non ci son dati ufficiali, ma l´aria che tira in città è questa. Sorpasso della Fortitudo negli abbonamenti. Mai visto, in quarant´anni.
«Poteva succedere, non commento».
Ma come, avvocato, l´abbonamento della Virtus l´ha 'inventato´ lei, ne ha fatto, dagli anni ´70, uno status symbol, e adesso che la creatura annaspa e soffre, nemmeno dà un parere?
«Sì, perché non è un parere, e la sento anch´io l´aria che tira. Non criticherò mai la Virtus, né farò polemica. Sarò sempre con la società di cui sono presidente onorario».
Eppure, qualcosa di 'storico´ sta succedendo. Al di là di umori e sentimenti, che spiegazione ne dà?
«Intanto partirei da prima. Dal passaggio a Casalecchio, voluto da Cazzola, che pure ha fatto tante scelte eccellenti. Io non ci sarei mai andato, è una posizione nota. Tutto nasce da lì. Poi, che si sia creata una situazione di disaffezione, verso l´attuale dirigenza della Virtus, è sotto gli occhi di tutti. Ci sta, lo sport vive di alti e bassi, e la gente a vedere la Virtus ci tornerà. Aggiungerei pure che la Fortitudo ha fatto una buona politica di prezzi, mentre in Virtus s´è continuato ad andare per la strada nota. Ma ripeto: sono virtussino e starò con la Virtus pure in un momento complicato come questo».
La Virtus è pure senza sponsor, ma qui c´è un´analogia. Anche la Virtus di Porelli, nel '69, giocò con la Vu in petto, e null´altro, come ora. Le uniche due volte, nell´ultimo mezzo secolo.
«Allora fu una scelta, tutta nostra, e liberissima. Ero subentrato alla guida del club, che aveva un abbinamento Candy e il contratto non scaduto. Giocavamo con una maglia azzurra, io volevo i colori veri, nostri, il bianco e nero, e la Vu ben visibile sulla maglia. Lo dissi a Peppino Fumagalli, che era il patron della Candy, lui rispose che aveva un contratto e teneva ai suoi colori, io replicai che tenevo ai miei. Dovremmo rompere il contratto, fece lui. Pronti. E giocammo in bianconero, perché era già fine estate e non c´era da rimettersi in cerca. L´anno dopo lo sponsor l´avevamo. Norda».
I cinquemila abbonati e il Madison di piazza Azzarita che non apriva le biglietterie sono un ricordo di tutti. Ma è vero che ogni tanto metteva il cartello di tutto esaurito anche se c´erano posti, per tener su la favola?
«Falso. Io ho tenuto i documenti di quegli anni e in studio ho ancora un´inserzione del Carlino in cui, offrendo un milione l´uno, si cercavano due abbonamenti scaduti, l´unico modo, si sa, per avere i nuovi. Se qualcuno tirava fuori un milione, d´allora, e parlo di fine anni '70, era segno che tanti biglietti in giro non ce n´erano».
Ricorda una svolta, il momento in cui percepì che, da cartoncino da forare per vedere uno spettacolo, la tessera Virtus era diventata uno status symbol cittadino?
«No, ricordo piuttosto un progresso lento e costante, gradino dopo gradino. Quell´anno con la Vu in petto, però, smosse molto la città, perché la Virtus rappresentava qualcosa per la storia della gente, non solo di Bologna, era un simbolo che apparteneva al vissuto di tanti. L´affezione per una bandiera non è un bene quantificabile in denaro, ma esiste, è un patrimonio. E noi, ossia il gruppo con me, Ugolini, Canna, Gandolfi, su quel patrimonio lavorò sodo. Prenda il famoso parterre. Ce l´inventammo. Allora non c´erano sedie in campo. Partimmo con una fila attaccata al muro, poi due, poi tre, poi dietro i canestri, poi tutto quel che s´è visto. Un giorno ci rendemmo conto che era pieno. E ci sarebbe rimasto. Poi ci vuole anche fortuna».
Ossia?
«Trovare la gente giusta. Ho fatto il dirigente sportivo per una vita, e il mio massimo, come colpo di culo, fu Peterson. Lui ci cambiò il mondo. L´altro colpo fu Cosic: il più grande di sempre, fra quelli che han giocato nella Virtus. Bene, più che prenderlo noi, venne lui. Perché Creso era così, decideva lui».
Walter Fuochi
«Poteva succedere, non commento».
Ma come, avvocato, l´abbonamento della Virtus l´ha 'inventato´ lei, ne ha fatto, dagli anni ´70, uno status symbol, e adesso che la creatura annaspa e soffre, nemmeno dà un parere?
«Sì, perché non è un parere, e la sento anch´io l´aria che tira. Non criticherò mai la Virtus, né farò polemica. Sarò sempre con la società di cui sono presidente onorario».
Eppure, qualcosa di 'storico´ sta succedendo. Al di là di umori e sentimenti, che spiegazione ne dà?
«Intanto partirei da prima. Dal passaggio a Casalecchio, voluto da Cazzola, che pure ha fatto tante scelte eccellenti. Io non ci sarei mai andato, è una posizione nota. Tutto nasce da lì. Poi, che si sia creata una situazione di disaffezione, verso l´attuale dirigenza della Virtus, è sotto gli occhi di tutti. Ci sta, lo sport vive di alti e bassi, e la gente a vedere la Virtus ci tornerà. Aggiungerei pure che la Fortitudo ha fatto una buona politica di prezzi, mentre in Virtus s´è continuato ad andare per la strada nota. Ma ripeto: sono virtussino e starò con la Virtus pure in un momento complicato come questo».
La Virtus è pure senza sponsor, ma qui c´è un´analogia. Anche la Virtus di Porelli, nel '69, giocò con la Vu in petto, e null´altro, come ora. Le uniche due volte, nell´ultimo mezzo secolo.
«Allora fu una scelta, tutta nostra, e liberissima. Ero subentrato alla guida del club, che aveva un abbinamento Candy e il contratto non scaduto. Giocavamo con una maglia azzurra, io volevo i colori veri, nostri, il bianco e nero, e la Vu ben visibile sulla maglia. Lo dissi a Peppino Fumagalli, che era il patron della Candy, lui rispose che aveva un contratto e teneva ai suoi colori, io replicai che tenevo ai miei. Dovremmo rompere il contratto, fece lui. Pronti. E giocammo in bianconero, perché era già fine estate e non c´era da rimettersi in cerca. L´anno dopo lo sponsor l´avevamo. Norda».
I cinquemila abbonati e il Madison di piazza Azzarita che non apriva le biglietterie sono un ricordo di tutti. Ma è vero che ogni tanto metteva il cartello di tutto esaurito anche se c´erano posti, per tener su la favola?
«Falso. Io ho tenuto i documenti di quegli anni e in studio ho ancora un´inserzione del Carlino in cui, offrendo un milione l´uno, si cercavano due abbonamenti scaduti, l´unico modo, si sa, per avere i nuovi. Se qualcuno tirava fuori un milione, d´allora, e parlo di fine anni '70, era segno che tanti biglietti in giro non ce n´erano».
Ricorda una svolta, il momento in cui percepì che, da cartoncino da forare per vedere uno spettacolo, la tessera Virtus era diventata uno status symbol cittadino?
«No, ricordo piuttosto un progresso lento e costante, gradino dopo gradino. Quell´anno con la Vu in petto, però, smosse molto la città, perché la Virtus rappresentava qualcosa per la storia della gente, non solo di Bologna, era un simbolo che apparteneva al vissuto di tanti. L´affezione per una bandiera non è un bene quantificabile in denaro, ma esiste, è un patrimonio. E noi, ossia il gruppo con me, Ugolini, Canna, Gandolfi, su quel patrimonio lavorò sodo. Prenda il famoso parterre. Ce l´inventammo. Allora non c´erano sedie in campo. Partimmo con una fila attaccata al muro, poi due, poi tre, poi dietro i canestri, poi tutto quel che s´è visto. Un giorno ci rendemmo conto che era pieno. E ci sarebbe rimasto. Poi ci vuole anche fortuna».
Ossia?
«Trovare la gente giusta. Ho fatto il dirigente sportivo per una vita, e il mio massimo, come colpo di culo, fu Peterson. Lui ci cambiò il mondo. L´altro colpo fu Cosic: il più grande di sempre, fra quelli che han giocato nella Virtus. Bene, più che prenderlo noi, venne lui. Perché Creso era così, decideva lui».
Walter Fuochi
Fonte: La Repubblica