«È MOLTO scuro? o più sul chiaro? Lo aveva detto.
“Lei intende dire - qualcosa come cioccolata fondente oppure al latte?"/Assentì in tono clinico, schiacciante, nel suo fare vagamente / impersonale.... “Allora è scuro, no?“ "Non del tutto" dissi sentendo il ricevitore impennarsi a quella inattesa saetta / con un riverbero che mi fece vibrare le orecchie. “Signora", implorai / “Non preferirebbe, / forse, / controllare di persona?".
Il poeta nigeriano Wole Soyinka chiude in questi versi (sono parte della lirica Conversazione telefonica) tutta l’ironia, amarissima, e tutto il sense of humour di un nero che cerca casa nella Londra razzista degli anni Sessanta. «Oggi la capitale inglese non è più razzista. Come non è razzista Parigi. Ma l’Italia sì, è razzista. Non ho paura di dichiararlo, anche se questo può risolversi in uno svantaggio. In Italia, se vedono un nero con una ragazza bianca o viceversa, si voltano, ti additano, fanno battute. E altre cose del genere. Noi italiani, insomma, su questo piano abbiamo ancora molto da imparare».
Carlton Myers, 32 anni il 30 marzo 2003, stella della Virtus Roma, miglior basket-player d’Italia, pelle scura e cuore caldo, è uno che parla chiaro. Ancora cocente l’episodio di Varese, dove, qualche settimana fa, i tifosi locali gli hanno urlato che “italiani neri non ne esistono". Ancora vivo il ricordo della sua risposta veemente, che è finita sui giornali e della quale, però, si pente: «Avrei dovuto fingere di non capire. Non ne sono stato capace, benché ora mi senta, rispetto al passato, molto più maturo e padrone di me. Avrei dovuto reagire più cristianamente. Io, in Dio, ci credo. Credo che esista qualcuno che ha già pensato e scritto tutto, che ha disegnato il destino degli uomini e sta a vedere come loro lo compiono».
E’ nato a Londra ma ha casa a Rimini. Un papà nero, inglese e musicista; una mamma bianca e italiana; una bellissima moglie, pure bianca, e un figlio ambrato, Joel, che ha preso il meglio dei genitori. Figurarsi: lui Carlton, offre al basket e alla vita un corpo da gran premio, distillabile muscolo per muscolo, e una faccia da amante latino ben organizzata sotto il cranio pelato; lei, Milena, accompagna il fisico da sfilata con il sorriso delle persone felici.
Bello, impulsivo, trascinatore, vincente. Un metro e 92 di altezza per 91 chili di peso. Un record personale di 87 punti in una sola partita. La fama di combattente. Quanto è costato, Myers, diventare così?
«Anni di silenzio e di ascolto. Sofferenza. Non ho avuto un’infanzia felice. I miei genitori si sono separati e a un certo punto, come tanti altri bambini, mi sono sentito fare la terribile domanda: con chi preferisci stare? Rimasi zitto. Ricordo il dolore, il pianto. Ma non regalai alibi o risposte a qualcuno. Forse decisi che era meglio ascoltare che parlare. Non me ne pento: se ascolti, impari. E quando finalmente decidi di esprimerti, sai molte cose anche senza averle studiate, ti trovi bene con tanti tipi di persone. Quanto al basket, non è una storia particolare. Da piccolo facevo molti sport, compreso il calcio. Poi, trovando corrispondenza fra le mie qualità fisiche e la pallacanestro, mi sono concentrato su questa».
La carriera le ha dato tutte le soddisfazioni che aspettava o attende ancora qualcosa?
«Io amo vincere. A un certo punto hanno cominciato a definirmi il miglior giocatore italiano (sono italiano a tutti gli effetti) e mi aspettavo di far fruttare le situazioni legate a quel titolo. Invece gli scudetti non arrivavano, sembrava una magia negativa. Perdevo fiducia in me stesso. Un giorno, addirittura, mia madre arrivò a dirmi: “Carlton, se non vinci lo scudetto quest’anno non lo vinci più". Botta tremenda. Non lo vinsi. Allora presi di petto me stesso, mi concentrai al massimo: lo scudetto venne, puntualmente, l’anno successivo. La felicità fu doppia: ero scudettato e più maturo, ero contento di me».
Lei ha un modello? Di vita e di sport?
«A un convegno dove si è parlato di razzismo - c’erano anche Cofferati e il presidente dell’Inter, Moratti - ho chiuso il mio intervento con una poesia di Mohammed Alì. E’ un grande. Ammiro la sua coerenza, il coraggio di parlare chiaro, la statura umana e civile, l’atleta che non ha uguali. Nel basket, inutile dirlo, il massimo è Jordan. Questi sono due punti di riferimento. Io non cerco di imitare nessuno, il mio obiettivo è esprimere me stesso».
Teme, nello sport, l’azione del doping, a quanto pare sempre più presente?
«Non credo sia così massiccia come sembra. Nel basket, il fenomeno è irrilevante. Probabilmente il doping va di pari passo con la mole di denaro che circola in una disciplina. La pallacanestro, almeno in Europa, non è povera, ma nemmeno ricchissima. I soldi girano, certo, ma non ai livelli del calcio, o della grande boxe professionistica di qualche decennio fa. Se parliamo dell’NBA, le cose cambiano. Il denarò, lì, corre. E inquina».
Le fa paura, da padre, il mondo globalizzato che aspetta suo figlio nel futuro prossimo?
«Il mondo che ci stanno preparando non mi piace per niente. Bush ha persino il coraggio di proporre nuove guerre e trova alleati che lo ascoltano, fanno sì con la testa, tutto bene, siamo con te. Ci sono stato male, vedendo Berlusconi in televisione, dietro il presidente americano, annuire ad ogni sua parola. Come si fa ad essere così proni? Uno che mi sta simpatico per come si comporta - parlo di modi di fare, di calma e autorevolezza nell’esporre le proprie tesi, senza lasciarsi travolgere dall’urlo - è invece Gianfranco Fini un altro è Massimo D’Alema. Ma la politica, oggi, è un gran casino, a destra e a sinistra: sembra che a nessuno importi veramente dove stiamo andando».
In cosa si rifugia?
«In mio figlio. Quando lo vedo e mi fa un sorriso, buona parte delle cose che in quel momento mi opprimono, scompare. Poi c’è l’amicizia. Gli amici sono un gran valore. Anche i compagni di squadra: a volte li strapazzo, ma sono tutti bravi atleti e brave persone. Quando esplodo, loro dovrebbero capire che lo faccio solo per il dispiacere di non aver vinto. Del resto, io sono di quelli che “maltrattano" le persone a cui vogliono più bene».
Come si definirebbe, in un autoritratto di parole?
«Testardo, caparbio, impaziente, sincero, concreto».
Riesce ad avere un desiderio romantico?
«Io romantico? No, mai. Ho sempre i piedi per terra. Faccio i conti, vado al sodo. Non ho sogni. Il mio campo è la realtà».
Rita Sala
“Lei intende dire - qualcosa come cioccolata fondente oppure al latte?"/Assentì in tono clinico, schiacciante, nel suo fare vagamente / impersonale.... “Allora è scuro, no?“ "Non del tutto" dissi sentendo il ricevitore impennarsi a quella inattesa saetta / con un riverbero che mi fece vibrare le orecchie. “Signora", implorai / “Non preferirebbe, / forse, / controllare di persona?".
Il poeta nigeriano Wole Soyinka chiude in questi versi (sono parte della lirica Conversazione telefonica) tutta l’ironia, amarissima, e tutto il sense of humour di un nero che cerca casa nella Londra razzista degli anni Sessanta. «Oggi la capitale inglese non è più razzista. Come non è razzista Parigi. Ma l’Italia sì, è razzista. Non ho paura di dichiararlo, anche se questo può risolversi in uno svantaggio. In Italia, se vedono un nero con una ragazza bianca o viceversa, si voltano, ti additano, fanno battute. E altre cose del genere. Noi italiani, insomma, su questo piano abbiamo ancora molto da imparare».
Carlton Myers, 32 anni il 30 marzo 2003, stella della Virtus Roma, miglior basket-player d’Italia, pelle scura e cuore caldo, è uno che parla chiaro. Ancora cocente l’episodio di Varese, dove, qualche settimana fa, i tifosi locali gli hanno urlato che “italiani neri non ne esistono". Ancora vivo il ricordo della sua risposta veemente, che è finita sui giornali e della quale, però, si pente: «Avrei dovuto fingere di non capire. Non ne sono stato capace, benché ora mi senta, rispetto al passato, molto più maturo e padrone di me. Avrei dovuto reagire più cristianamente. Io, in Dio, ci credo. Credo che esista qualcuno che ha già pensato e scritto tutto, che ha disegnato il destino degli uomini e sta a vedere come loro lo compiono».
E’ nato a Londra ma ha casa a Rimini. Un papà nero, inglese e musicista; una mamma bianca e italiana; una bellissima moglie, pure bianca, e un figlio ambrato, Joel, che ha preso il meglio dei genitori. Figurarsi: lui Carlton, offre al basket e alla vita un corpo da gran premio, distillabile muscolo per muscolo, e una faccia da amante latino ben organizzata sotto il cranio pelato; lei, Milena, accompagna il fisico da sfilata con il sorriso delle persone felici.
Bello, impulsivo, trascinatore, vincente. Un metro e 92 di altezza per 91 chili di peso. Un record personale di 87 punti in una sola partita. La fama di combattente. Quanto è costato, Myers, diventare così?
«Anni di silenzio e di ascolto. Sofferenza. Non ho avuto un’infanzia felice. I miei genitori si sono separati e a un certo punto, come tanti altri bambini, mi sono sentito fare la terribile domanda: con chi preferisci stare? Rimasi zitto. Ricordo il dolore, il pianto. Ma non regalai alibi o risposte a qualcuno. Forse decisi che era meglio ascoltare che parlare. Non me ne pento: se ascolti, impari. E quando finalmente decidi di esprimerti, sai molte cose anche senza averle studiate, ti trovi bene con tanti tipi di persone. Quanto al basket, non è una storia particolare. Da piccolo facevo molti sport, compreso il calcio. Poi, trovando corrispondenza fra le mie qualità fisiche e la pallacanestro, mi sono concentrato su questa».
La carriera le ha dato tutte le soddisfazioni che aspettava o attende ancora qualcosa?
«Io amo vincere. A un certo punto hanno cominciato a definirmi il miglior giocatore italiano (sono italiano a tutti gli effetti) e mi aspettavo di far fruttare le situazioni legate a quel titolo. Invece gli scudetti non arrivavano, sembrava una magia negativa. Perdevo fiducia in me stesso. Un giorno, addirittura, mia madre arrivò a dirmi: “Carlton, se non vinci lo scudetto quest’anno non lo vinci più". Botta tremenda. Non lo vinsi. Allora presi di petto me stesso, mi concentrai al massimo: lo scudetto venne, puntualmente, l’anno successivo. La felicità fu doppia: ero scudettato e più maturo, ero contento di me».
Lei ha un modello? Di vita e di sport?
«A un convegno dove si è parlato di razzismo - c’erano anche Cofferati e il presidente dell’Inter, Moratti - ho chiuso il mio intervento con una poesia di Mohammed Alì. E’ un grande. Ammiro la sua coerenza, il coraggio di parlare chiaro, la statura umana e civile, l’atleta che non ha uguali. Nel basket, inutile dirlo, il massimo è Jordan. Questi sono due punti di riferimento. Io non cerco di imitare nessuno, il mio obiettivo è esprimere me stesso».
Teme, nello sport, l’azione del doping, a quanto pare sempre più presente?
«Non credo sia così massiccia come sembra. Nel basket, il fenomeno è irrilevante. Probabilmente il doping va di pari passo con la mole di denaro che circola in una disciplina. La pallacanestro, almeno in Europa, non è povera, ma nemmeno ricchissima. I soldi girano, certo, ma non ai livelli del calcio, o della grande boxe professionistica di qualche decennio fa. Se parliamo dell’NBA, le cose cambiano. Il denarò, lì, corre. E inquina».
Le fa paura, da padre, il mondo globalizzato che aspetta suo figlio nel futuro prossimo?
«Il mondo che ci stanno preparando non mi piace per niente. Bush ha persino il coraggio di proporre nuove guerre e trova alleati che lo ascoltano, fanno sì con la testa, tutto bene, siamo con te. Ci sono stato male, vedendo Berlusconi in televisione, dietro il presidente americano, annuire ad ogni sua parola. Come si fa ad essere così proni? Uno che mi sta simpatico per come si comporta - parlo di modi di fare, di calma e autorevolezza nell’esporre le proprie tesi, senza lasciarsi travolgere dall’urlo - è invece Gianfranco Fini un altro è Massimo D’Alema. Ma la politica, oggi, è un gran casino, a destra e a sinistra: sembra che a nessuno importi veramente dove stiamo andando».
In cosa si rifugia?
«In mio figlio. Quando lo vedo e mi fa un sorriso, buona parte delle cose che in quel momento mi opprimono, scompare. Poi c’è l’amicizia. Gli amici sono un gran valore. Anche i compagni di squadra: a volte li strapazzo, ma sono tutti bravi atleti e brave persone. Quando esplodo, loro dovrebbero capire che lo faccio solo per il dispiacere di non aver vinto. Del resto, io sono di quelli che “maltrattano" le persone a cui vogliono più bene».
Come si definirebbe, in un autoritratto di parole?
«Testardo, caparbio, impaziente, sincero, concreto».
Riesce ad avere un desiderio romantico?
«Io romantico? No, mai. Ho sempre i piedi per terra. Faccio i conti, vado al sodo. Non ho sogni. Il mio campo è la realtà».
Rita Sala