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Pasquali racconta Bulleri

«Lo prendemmo con D'Antoni dopo un'interzona»

Massimo Bulleri raccontato da chi lo conosce meglio, cioè Renato Pasquali, il coach che ha visto crescere (in tutti i sensi) l'artefice principale dello storico 500º successo di campionato di serie A (in 856 gare) da quando a Treviso esiste una squadra di pallacanestro.
«Io Max lo conosco da otto anni - inizia lo jesolano - ricordo che andai con Pressacco a vederlo in una interzona a Santa Lucia, lui giocò bene e ci piacque: aveva 17 anni, poi vinse il titolo juniores proprio a Treviso, in una gara alla quale portai D'Antoni, appena arrivato alla Benetton, proprio per fargli vedere quel ragazzino. Mike lo vide e concordò con me che sarebbe stato un elemento interessante. E lo prendemmo».
Le vostre storie si sono intrecciate spesso.
«Già. Quando Bulleri andò in prestito a Mestre, qui arrivò Obradovic ed io persi il posto di assistente ma, essendo ancora sotto contratto con la Benetton, seguivo gli juniores e la convalescenza di Max che, nel frattempo, si era infortunato. Di mattina, per 4-5 mesi eravamo in palestra, agivamo soprattutto sulla tecnica di tiro, la sua lacuna principale: un lavoro che gli ha fatto un gran bene, tant'è vero che l'anno dopo, una volta guarito, a dicembre me lo portai a Forlì e lui contribuì alla nostra buona stagione».
Però un'esplosione di questa portata non te l'aspettavi nemmeno tu.
«Così no, lo ammetto. Vedevo comunque che in allenamento diventava un play sempre più autoritario nella gestione del gioco, e poi D'Antoni ha avuto il merito di dargli fiducia, anche se all'inizio diceva: non è che non lo voglio far giocare, ma come faccio a rinunciare a Edney? Poi Tyus fu assente in qualche gara e Bulleri cominciò a fare il protagonista, come i 18 punti segnati a Charleroi: chiamato in causa, non si faceva mai trovare impreparato. Ed allora Mike gli diede 15-20 minuti fissi».
Qual è la qualità migliore del 'Bullo'?
«Ha reattività e mentalità aggressiva, buon senso del canestro, buon palleggio arresto e tiro, anche da tre. A Milano era marcato da Coldebella, uno più alto di lui ed ottimo marcatore con due buone gambe anche per difendere. Il suo ruolo sarebbe uno e... mezzo, un po' play e un po' guardia: ciò che gli manca forse è un pizzico di fantasia in fase di costruzione di gioco».
L'umiltà non gli fa difetto.
«Lui ha detto che a Milano nel finale ha dovuto tirare per forza: d'accordo, ma sapete quanti giocatori ho visto, anche con più esperienza, passare la palla invece di tirare? E quei due tiri liberi se li è guadagnati, attaccando l'avversario con una penetrazione coraggiosa. Comunque ha detto una piccola bugia, perché ad un certo punto ha chiamato due schemi nei quali la prima opzione è lui. Indice di personalità. La sua forza gli deriva dal fatto che partire dalla panchina gli leva qualche responsabilità: il prossimo passo sarà testarlo da titolare».
D'Antoni diceva: ha faccia tosta, a volte troppa. Ma nelle interviste sembra timido...
«Forse, a parole, ha ancora un po' di timore a calarsi in un ruolo che lui stesso si è ritagliato importante, ma preferisco un giocatore decisivo con i fatti e non con le chiacchiere».
Silvano Focarelli
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