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Jenkins americano a Roma

«Vorrei giocare con un arabo». Follie, preghiere, baci: perché il basket non è tutto

ROMA - La febbre negli occhi, l’aria guerriera di chi non risparmierà un tiro pur di arrivare al tesoro del campionato. Horace Jenkins è il signore della Roma dei canestri, il playmaker che legge la mano della Virtus di Piero Bucchi. Lui, il regista della squadra, è l’uomo della provvidenza per i momenti difficili, il giocatore che sa dare certezze ai compagni, realizzare punti pesanti e infiammare con la sua rapidità, quasi fosse un cavallo nella prateria, il pubblico. La verità è bellezza, la bellezza verità. Sono i versi di John Keats adatti davvero a questo poeta del parquet, statunitense nato a Elizabeth, nel New Jersey, 28 anni fa (il compleanno lo ha festaggiato lunedì scorso), pelle nera, un amore immenso per la famiglia nella quale ama rifugiarsi e una fede infinita. A Roma Jenkins lo ha voluto Bucchi. L’allenatore ha scommesso sul giocatore che l’anno passato era stato protagonista in Legadue, a Borgomanero. Unico difetto di Horace: spesso è poco altruista, cost-to-cost prima del tiro anche se a Roma, con un compagno come Myers e un pivot che ama giocare la palla in area come Santiago, dovrà calmarsi un po’. Talento vero, rapidità, grande elevazione. Eppure la pallacanestro stava per perdere le prodezze di Jenkins. «A vent’anni ero davanti ad un bivio - ricorda Horace - Era nato mio figlio Hakeem, non avevo un soldo per tirare avanti. Una sofferenza lasciare l’università, ma non avevo altra soluzione». S’è inventato mille lavori, elettricista, postino, imbianchino, anche uomo della nettezza urbana. Tutto pur di racimolare qualche dollaro per vivere. «Ho dovuto mettere da parte la carriera, ma non poteva fare diversamente. E poi non potevo scegliere solo per me». A rimetterlo in pista, dopo quattro anni (nel 1998) di fatiche durante i quali il basket non è mai stato completamente abbandonato, è stato Jose Rebimbas, coach della Williams Paterson University. Il tecnico lo vide giocare e rimase impressionato dalla sua rapidità: lo chiamò a giocare nella Division III. In Italia Horace è arrivato quasi per sbaglio: l’anno scorso Borgomanero aveva scelto un giocatorce che poi non arrivò perché aveva già firmato per un altro club. L’agente Filipovic, allora, non sapendo cosa fare e maltrattato per quel tradimento, spedì a Bormio (dove Borgomanero era in ritiro) Jenkins. E lui, il regista, è subito esploso realizzando 27,1 punti a partita con un top di 46. «Il basket è importante ma la famiglia è una cosa bellissima. Ho un’altra figlia, Hannesia, che ha tre anni, e una compagna, Nahshida. Sono splendide e sono il mio orgoglio». Ama le sue donne, con la figlioletta, davvero stupenda, si diverte e la diverte con la sue giocate al Palazzetto. E adora Roma. «E’ una città bellissima, quando vado in centro scatto centinaia di fotografie: ogni angolo è meraviglioso. Il neo? C’è troppo calcio, ma prometto: presto questa diventerà la città della pallacanestro». Religiosissimo, Jenkins prega anche nello spogliatoio prima delle partite. «Ringrazio sempre Dio per il mio destino e perché lui mi aiuta ogni giorno». In Italia vive da più di un anno: Horace apprezza il Belpaese. Nessun problema per il colore della sua pelle, niente episodi strani. «Qui, intendo dire in Italia, ho avuto un’accoglienza speciale. Il razzismo? No, mai segnali di questo tipo perché l’Italia non un Paese razzista». Segue la politica, un occhio anche a quella italiana «anche se non conosco bene i personaggi», chiarisce, ma in ogni caso qui o là, Italia o States, la situazione non cambia. «E’ ambito essere un politico, ti dà prestigio e potere». Credere nella pace, tenere lontana la guerra. L’undici settembre del 2001 è una data tremenda. «Ero a Novara quel giorno - ricorda - che paura per i miei parenti che vivevano nel New Jersey. Troppi morti innocenti, un dramma. Noi siamo un Paese unito e da quel momento lo siamo ancora di più». Meglio Clinton di Bush alla Casa Bianca. Questo il pensiero del regista della Virtus Roma che non condivide in pieno la politica estera del presidente degli Stati Uniti. «Con Clinton non abbiamo mai avuto problemi, con Bush c’è la guerra. Adesso vuole attaccare Saddam. Cosa penso? Io non sono un patito delle armi, a meno che non si sia costretti ad usarle a tutti i costi». Gli Usa sono, inutile negarlo, un Paese in guerra: il mondo arabo è il nemico. Eppure lui, Horace, non si tirerebbe indietro se nella sua squadra vi fosse un atleta musulmano. «Nessun problema a giocare con un arabo: nessuna persona è negativa».
Carlo Santi
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