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Elliott, impegno e spaghetti

«Adoro Livorno e il cibo italiano, ma sogno la Nba»

LIVORNO. Storia di un numero 10, come Maradona, Fantozzi o Roberto Baggio. Storia di un uomo che sul parquet ha gli occhi del leone e sul divano di casa ti guarda come fosse tuo fratello. Rodney Elliott da Baltimora, 202 centimetri per 105 chili, l'uomo che alle quattro della magnana sgranocchia pop corn e noccioline negli autogrill dell'autostrada, quello che l'anno scorso, dopo l'infortunio a Daniele Parente, prese una fascia bianca, ci scrisse col pennarello un bel «20» colorato di blu e si portò il numero del capitano stampato sul braccio in giro per i parquet di mezza Italia. Quello che questa estate, nel raduno di Poppi, scendendo dal pullman amaranto con l'ultima edizione della 'playstation' in mano, vide un bambino e gliela schiaffò sotto gli occhi per farlo divertire.
Rodney Elliott, l'uomo che per il suo futuro di giocatore sogna una chiamata dall'Nba, «perchè è il sogno di ogni americano che gioca a basket e perchè è bello sognare», alla faccia di quei 202 centimetri che per un'ala forte non sono proprio il massimo per entrare tra i pro a stelle e strisce, ma che per il suo futuro lontano dal parquet sogna di fare qualcosa per i giovani, di mettere in piedi una specie di casa famiglia o di accoglienza, fate voi, l'importante è che là i bambini possano crescere sicuri, lontani dalla strada, dalla criminalità, dalla droga. Qualcosa di simile alla Charles Davis Fundation, l'ex Scavolini che nel 1997 fu premiato da Bill Clinton come uno dei dieci uomini più buoni degli States, dopo aver creato la sua istituzione per aiutare i bambini poveri ad andare a scuola e praticare sport. «Perchè sono un giocatore di pallacanestro, ma anche un padre - spiega Rod - e quello che vedo ogni giorno sulle vie di Baltimora mi spaventa. La vita mi ha dato tanto e vorrei restituire agli altri la fortuna che ho avuto».
Rodney Elliott a 360º, non solo basket («è il mio mondo, e pensare che da piccolo giocavo a football ed ero un patito dei Dallas Cowboys»), ma anche famiglia, divertimenti, impegno nel sociale. Se Massimo Faraoni lo avesse cercato così, forse non lo avrebbe trovato. Perchè ci parli e ti sembra di rileggere alle origini la storia del Don Bosco, di rivedere l'oratorio dei Salesiani vent'anni fa, i ragazzi tolti dalla strada e portati su un campo di basket, con un pallone di gomma arancione e degli istruttori messi lì apposta, a insegnare pallacanestro e vita.
Rodney non poteva che capitare in questa società. Lui, un riconoscimento stile Davis lo ha già ricevuto ai tempi del college. Quando a Baltimora fu indetto il 'Rodney Elliott day'. «Mi ero sempre impegnato in attività sociali, a fianco dei bambini, e così per la mia ultima partita in Ncaa fu indetta questa festa durante la quale il sindaco di Baltimora mi consegnò una targa di riconoscenza, ma non immaginatevi chissà cosa», racconta, parlando quasi in punta di piedi. Noi però abbiamo fatto delle ricerche e abbiamo trovato che quel giorno Elliott scrisse qualcosa come 20 punti e il suo top di carriera a rimbalzo (17), "in front of a passionate Baltimore Arena record crowd of 13471", di fronte cioè ad un'Arena di Baltimora che registrò il suo record di sempre, 13471 persone, come riporta il Diamond Back, il giornale indipendente di Maryland University. Un mare di gente, che era accorsa per salutare questo campione del parquet e della vita.
Cambiamo capitolo. Qui in Italia lo chiamano sir Rodney, a casa lo chiamavano "noodles", spaghetti. E gli spaghetti a Elliott piacciono davvero un sacco. «Sono una della cose che più adoro. Il cibo italiano è fantastico. Norm Nolan e Bootsy Thornton mi avevano parlato bene di questo Paese, ma non ci avevo mai messo piede. E invece ho trovato un posto stupendo. Mi piace la pasta, soprattutto quella ai quattro formaggi, e poi il pesce. Purtroppo non posso mangiare crostacei per un'allergia. Anche a casa mia, a Baltimora, sono famosi, ma non c'è verso. Un'altra cosa che adoro dell'Italia è fare shopping nei vostri negozi. C'è roba stupenda, Gucci, Prada, Armani. Mi piace vestire bene, cerco di contenermi, ma la tentazione è forte».
La scorsa estate, dopo aver visto che dall'Nba non erano giunte chiamate, non ci ha pensato un attimo, Rod, a tornare alla Mabo. «A fine campionato avevo parlato in maniera chiara con Banchi e Faraoni - racconta - avevo spiegato la mia volontà di tentare la carta Nba, ma avevo anche detto loro che se mi fosse andata male, la mia prima scelta sarebbe stata Livorno. Perchè? Beh, in questa città si sta bene, c'è il mare, la gente è calorosa, ha una simpatia innata. L'anno scorso mi ero fatto molti amici, alcuni dei quali americani di Camp Darby. Con loro mi trovo molto bene. E poi squadra e società sono ok. Sono tornato motivato a far meglio e sapevo che anche la Mabo era intenzionata a migliorare rispetto all'anno passato. Gli stimoli sono importanti». Se non fosse che c'è un oceano a divederlo dai suoi affetti, dai genitori Doretha e Lather, dai 4 fratelli e dalle 3 sorelle, sarebbe l'ideale. «Già - risponde Rod - la famiglia mi manca, soprattutto mio figlio Rodney junior, che ha sei anni. Negli States gioca a basket e a football, come facevo io. Forse a gennaio verrà a trovarmi, finora non è mai stato in Italia. Sarebbe davvero bello».
Giulio Corsi
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