Jeff Brooks è un veterano del circuito europeo. Ha giocato in quattro differenti squadre italiane, ha giocato in Russia, in Spagna, vanta quattro anni di milizia in EuroLeague e ha vinto l’Eurocup. Questa è la sua prima stagione all’Olimpia Milano con cui ha combattuto a ripetizione nel 2014/15 quando giocava a Sassari inclusa una drammatica gara 7 della semifinale.
GLI INIZI – “Gioco a basket, da tanto tempo, da quando avevo due anni. Mio padre mi ha introdotto, lui conosce il basket in tutti i sensi. Ho sempre avuto voglia di arrivare, di giocare nella NBA ma non sempre i sogni si trasformano in realtà. Ho colto al volo l’opportunità di giocare in Italia dopo il mio anno da senior a Penn State quando mi infortunai alla spalla e non avevo altre opzioni. A Jesi mi hanno dato una possibilità così ho cominciato lì la mia carriera da pro. Sono grato a loro, senza di loro non sarei dove sono adesso, a ripartire per il mio ottavo anno. E’ stata una strada lunga quella che mi ha portato all’Olimpia Milano ma mi sono goduto ogni secondo della mia carriera e spero di continuare a farlo fino alla fine”.
LA SCELTA DEL COLLEGE – “Non sono dispiaciuto. Avevo bisogno di allontanarmi dal Kentucky. Uno dei motivi per cui dico questo è che stare da solo ti rende più forte. Mio padre me lo dice da quando avevo 14, 15 anni. Trovarmi a nove ore da casa mi ha aiutato a maturare velocemente. Ero da solo, niente genitori a svegliarmi per l’allenamento, niente mamma a prepararmi la colazione, niente nonna. Mi ha spinto a crescere mentalmente, non solo nel basket, di un livello. Dovevo fare tutto da solo, arrivare in classe in orario, agli allenamenti, avere i miei tutori ai meeting. E’ stata un’esperienza severa, al mio primo anno. Ho dovuto trasformare tutto in routine, tutto era attorno agli orari. Ne avevo bisogno. Non fosse stato Penn State sarebbe stato un altro posto, ma non ho mai pensato di stare a casa. Avevo bisogno di andare via, diventare un uomo, non pensare che i miei genitori avrebbe risolto tutto. Per questo sono felice di essermi allontanato”.
PENN STATE – “Andare lontano a scuola ha aperto la mia mente. Io non vengo da una piccola città. Vengono da una città abbastanza grande ma da una zona non proprio buona, così andare via, avere una vita sociale, ricevere un’educazione e poi giocare a basket con una squadra di gente valida, non è stata tanto una questione di prestigio, ma di conoscerci uno con l’altro, far parte di un gruppo, una famiglia. Vincere il NIT è stato grande, non avevo mai vinto un titolo, è stato il primo. Ero così felice che non sapevo cosa fare. E andare al Torneo NCAA da senior, è sempre stato l’obiettivo. Se chiedi a chiunque abbia fatto sport in Division One, soprattutto basket, qualificarsi per il torneo è il vero obiettivo. Ogni anno vuoi qualificarti e vedere cosa succederà. Riuscirci per noi è stato importante. Non c’eravamo riusciti per quasi vent’anni a Penn State e quando siamo entrati sono stati fuochi d’artificio. C’è un video di noi che festeggiamo su youtube. E’ stata una grande esperienza trovarmi insieme a gente che mi ha permesso di imparare tanto, non solo il basket ma di me stesso. Sarò sempre in debito per questa esperienza”.
DA JESI ALL’EUROLEAGUE – “E’ divertente perché onestamente non sapevo neanche cosa fosse l’EuroLeague. Quando ero a Jesi conoscevo solo la A2, sapevo quali erano i miei obiettivi, far parte di una buona squadra, essere uno dei migliori giocatori della lega. Non pensavo all’A1, l’Eurocup o l’EuroLeague. Non sapevo nulla, pensavo solo all’A2 perché il mio lavoro era in A2. E poi sono passato a Cantù e ho scoperto l’EuroLeague e mi sono informato su cosa fosse questa EuroLeague. E mi dissero di giocare e divertirmi e che mi sarebbe piaciuto. Ci qualificammo con un torneo di preseason, non era a Cantù, ma a Desio. Già nella prima partita mi sono accorto della differenza con la A2 e anche con l’A1. Quando ho giocato quel torneo mi sono detto che l’EuroLeague è differente, proviamo a capirla meglio. Dopo quattro anni so quello che voglio ed è giocarla ogni volta che ne ho la possibilità. E’ un’esperienza eccezionale, andare in paesi diversi, vedere tifosi diversi, tipi di basket diversi, filosofie di gioco diverse. E’ fantastico, sono felice di essere qui per la quinta volta. Sono gasato”. L’ANNO CHIAVE DI CASERTA – “Le mie origini sono umili. Quando sono andato a Cantù, in una squadra di EuroLeague, sono accadute tante altre cose, avevo più soldi, conducevo uno stile di vita differente, ero molto giovane e ho perso attenzione su quello che conta. Mi divertivo comprando vestiti, andando fuori fino a tardi la sera, cose che i giocatori giovani fanno. Ma ho capito che a Caserta dovevo cambiare mentalità, vita, ho capito che sono qui, che Dio mi ha messo qui, per giocare a basket, non per godere delle amenità tipo i soldi, provvedere alla propria famiglia eccetera, ma anche per godere di quello che fai in campo, ogni giorno in allenamento. In termini di approccio al gioco, Caserta è stata un cambiamento di 180 gradi. Giocare per Coach Molin mi ha aiutato perché lui era a Cantù l’anno prima e ha visto un giocatore completamente diverso. E anche la lega se n’è accorta: sono stato un All-Star quell’anno. Penso di aver messo tutto quello che avevo nel diventare il miglior giocatore possibile. L’anno prima sono stato soverchiato dalla differenza tra A2 ed EuroLeague. Ma ho avuto un atteggiamento diverso a Caserta, più concentrato su quello che volevo essere come giocatore. E come persona è cambiato tutto: io e quella che ora è mia moglie abbiamo cominciato a vivere insieme. Per me come persona e giocatore, quello che è stato l’anno che mi ha fatto diventare quello che sono oggi”. SASSARI – “Non è strano essere a Milano, è la vita, che cambia. Ora sono felice di essere qui ma ricordo ogni secondo di quell’anno perché tutti parlavano sempre di Sassari e Milano. Era una battaglia tra giganti. Io sono una creatura di dove sono stato, delle esperienze che ho avuto e adesso sono qui, tre anni dopo, a giocare per Milano e tutti i miei sforzi, il suo sudore, sangue e lacrime saranno per Milano. Non puoi avere rimorsi, va dove devi andare, dove ti vogliono a giocare, dai il 100 percento e fai quello che puoi fare. Sono incredibilmente felice di quello che ho fatto lì, ma adesso voglio vincere tanti trofei qui”.
NEMANJA NEDOVIC – “Mi piace definirlo un forno a microonde. E’ un giocatore che se si scalda diventa impossibile da fermare. L’ho visto in allenamento, l’ho visto in partita quando mette uno o due tiri poi è il tuo peggior incubo. E’ ultra aggressivo ma la cosa che mi piace è che è aggressivo con fiducia. Lui vuole vincere, vuole fare le giocate giuste. Quello che mi ha sempre attratto di lui è che sai che sarà pronto alla battaglia. Quello che abbiamo, affrontando questa esperienza a Milano, è che ci conosciamo non solo per quello che possiamo fare in campo ma per la mentalità. Questi due anni di esperienza insieme, venendo qui con la squadra, l’atletismo, la taglia, le qualità difensive che ci sono qui, è come aggiungere due fette ad una torta già grande”.
BROOKS, IL GIOCATORE – “La parola che mi piace usare è versatilità. Posso fare tante cose, non direi che sono davvero bravo a fare una cosa. Mi piace farne tante, trattare la palla, passare, tirare, difendere, prendere rimbalzi, stoppare, occupare le linee di passaggio, sono un tuttofare, cerco sempre di influire sulla partita. Questo è un testamento a dove sono stato a giocare. Tanti allenatori, giocatori che mi hanno visto dicono “lui non ha una sola dimensione, può prendere un rimbalzo offensivo, oppure anticipare un passaggio e rubare palla o fare un assist dall’altra parte o prendere un rimbalzo decisivo nell’ultimo minuto che fa vincere la sua squadra”. La parola è versatilità ma sono anche un agonista. Voglio vincere. Ogni volta che vado in campo, non importa come, cosa accade, le statistiche, mi interessa solo vincere, così mi hanno educato. Tutti vogliono vincere ma io voglio farlo ogni volta. Questo è quello che darò a Milano”.
LE ASPETTATIVE – “Personalmente quello che chiedo a me stesso ogni giorno è diventare migliore e dare tutto quello che ho. Le statistiche, i numeri non me interessano. Non lo seguo perché ti portano sulla strada sbagliata. Questa è una squadra, non è tennis dove giochi i singolari, non è nuoto dove nuoti nella tua corsia. Quello che fai è per raggiungere un obiettivo. Per la squadra spero solo che si vada in campo ogni volta con la consapevolezza di poter vincere, con la voglia di farlo. Non importa la competizione, contro la peggiore squadra della lega italiana o in EuroLeague, dobbiamo andare in campo per vincere, non pensare di poterlo fare e poi si vedrà. Andare in campo per vincere. Facciamolo e non chiederò altro”.