Era un predestinato, lo sanno tutti. Era un bambino quando Reggio Emilia lo portò in panchina in Serie A per la prima volta. Quando al Palalido fu MVP di un camp per prospetti guidato da Michael Jordan in persona. Quando andò in America insieme ai migliori talenti europei e persino quando, all’esordio da giocatore, saltò per la palla a due colpendola con un pugno. Quand’era al minibasket ebbe per un periodo Alessandro Gentile come compagno di squadra. Veniva descritto come una “bestia”, uno che non potevi contenerlo. Così non è una sorpresa la carriera di Nicolò Melli. Ma tra le promesse di un quattordicenne e i successi di un trentenne ci sono in mezzo anni di lavoro, fatica, sacrifici, soddisfazioni, lacrime, sangue, sudore, gioia. E lui stesso ha intenzione di restare in giro ancora a lungo, pensa al 2028 come prima possibile data di scadenza, ma in realtà conta di giocare il più a lungo possibile, “ad alto livello e a patto di essere presentabili”. Nicolò Melli ha giocato più partite di chiunque altro con la maglia dell’Olimpia nella massima competizione europea. Questa è la sua confessione.
Siamo nel 2010 e al piccolo Nicolò Melli arriva questa notizia: andrai a giocare all’Olimpia Milano. Ricordi? Sensazioni di quei momenti?
“Io volevo venire a Milano. Era il periodo in cui stavo prendendo la maturità. Dovevo studiare e al tempo stesso incontrare le squadre interessate a me. Ma io volevo Milano. È una città che per me è stata sempre attraente. Confesso: lo è anche perché sono tifoso interista per cui la trasferta a Milano, le poche volte che sono venuto a San Siro, ha sempre avuto un fascino particolare. E poi l’Olimpia Milano: non devo certo essere io a spiegare cosa significhi. In più io vengo da Reggio Emilia e qui a Milano ha giocato un giocatore reggiano speciale, Piero Montecchi. Non posso dire che da piccolo tifavo Olimpia, perché naturalmente tifavo Reggiana, ma era una squadra importante, un obiettivo. Quando si è concretizzato l’arrivo sono stato solo contento, ma anche consapevole che sarebbe stato solo un punto di partenza”.
Hai giocato subito in EuroLeague, fin dal primo anno. Ora hai il record di presenze in maglia Olimpia. Ma quanto era diversa l’EuroLeague a quell’epoca?
“Sono diversi i giocatori, la pallacanestro è cambiata, sono passati quasi 15 anni, poi se non ricordo male il mio primo anno di EuroLeague fu anche il primo anno dopo l’allontanamento della linea dei tre punti; quindi, ci fu un periodo di adattamento alle nuove dimensioni del campo. Ma è cambiato anche il fatto che si giochino quasi 20 partite in più all’anno, quindi, il livello, l’intensità fisica di ogni partita è diversa. È tutto parte di un’evoluzione, non sto a dire se buona o meno buona, per quanto mi riguarda è un bene, perché gioco di più, ma sì c’è tanta differenza”.
La stagione 2013/14 è stata quella della tua affermazione: prima di vincere lo scudetto quella squadra ebbe una cavalcata eccezionale in EuroLeague con sette vittorie di fila, i playoff. Quanto era divertente giocare in quel gruppo?
“Era bello, c’era una bella atmosfera, funzionavamo bene in campo, c’erano ruoli precisi, ricordo una bella vittoria in trasferta con il Fenerbahce, nella prima partita giocata all’Ulker Arena. Era bello. Poi ci sono stati i tanto famosi playoff con il Maccabi che mi porterò sempre dentro. Ci fu anche un’ingiustizia sportiva in quell’anno, nel senso che non credo meritassimo di perdere in Coppa Italia con Sassari, qui a Milano, con due canestri quasi da centrocampo di Diener. Alla fine, anche lo scudetto l’abbiamo riagguantato da 3-2 sotto nella serie. Sarebbe stato danno e beffa non vincerlo, perché quella era proprio una bella squadra, stava bene assieme, e giocammo un bel basket per larghi tratti”.
Nell’anno dello scudetto eri partito per fare il cambio di Wallace, poi di Kangur, e invece hai giocato in quintetto; l’anno successivo dovevi fare il cambio di Linas Kleiza e invece sei rimasto in quintetto. Questo dover tornare sempre indietro, ricominciare, è alla base della scelta di cambiare, cercare fiducia altrove?
“Sicuramente, prima di Wallace e Kangur, c’era stato anche Antonis Fotsis. Succede, un anno parti dietro un giocatore e finisci davanti; il secondo anno parti dietro non uno ma due giocatori e finisci davanti; il terzo anno, dopo aver vinto lo scudetto, mi sono detto “vado dove posso essere davvero un titolare”. C’è stato anche questo, ma volevo soprattutto mettermi in gioco. Ha influito, mi ha fatto riflettere, volevo dimostrare di essere anche io un titolare da EuroLeague. Sono contento della scelta fatta”.
Semifinale del 2015, Gara 7, il misterioso fallo commesso su Dyson che in realtà era una gomitata. Fosse stato sanzionato correttamente, sarebbe cambiata la tua storia?
“Se sarei rimasto a Milano? Non lo so. Può darsi. Sicuramente quello è stato uno dei fischi peggiori vissuti nella mia carriera. Se l’antisportivo che mi fischiarono contro il Maccabi fu una chiamata giusta, nel senso che l’errore lo feci io, in quella situazione non l’ho davvero toccato. Ho preso una gomitata in faccia. Quello è antisportivo suo, neppure fallo mio. E a quel punto abbiamo vinto la partita e siamo in finale. Di sicuro sarebbe cambiata la nostra storia in quella stagione. Poi le mie decisioni a fine anno, non so quali sarebbero state”.
Fatto sta che sei passato da Milano a Bamberg, hai fatto un passo indietro per farne due avanti come poi hai fatto. È stata una scelta coraggiosa e di un atleta molto sicuro dei propri mezzi.
“Non mi sono sentito coraggioso, dico la verità. Come ho detto, anche se credo che si debba dimostrare tutti gli anni il proprio valore, io e tutti, ripartire sempre da dietro non mi aveva stancato ma fatto riflettere sì. Ho avuto questa possibilità, una società ambiziosa, che aveva fatto bene in Eurocup e giocava per il titolo in Bundesliga, anche se quando finì la nostra stagione loro stavano ancora giocando e solo se avessero vinto il campionato avrebbero partecipato all’EuroLeague. Quindi non era una squadra affermata, Bamberg. Ma quando hanno avuto la possibilità di fare l’EuroLeague quello ha aiutato la scelta. Ma non mi sono sentito coraggioso, ho visto una società e un allenatore che mi volevano, una squadra che aveva giocatori di talento, come Brad Wanamaker contro il quale avevo giocato quando lui era a Pistoia. Volevo provare qualcosa di diverso, mettermi alla prova, non volevo essere coraggioso”.
Hai vinto tanto a Bamberg, a Istanbul e a Milano. È vero come dice Gigi Datome che vincere in Italia è diverso in termini di intima soddisfazione?
“Sì, è diverso. Da italiano vincere il campionato italiano o vincere con una squadra italiana ha tutto un altro significato. E per me farlo da Capitano… Questo non toglie nulla a quello che ho avuto la fortuna di vincere a Bamberg o al Fenerbahce, ma è così. Giochi contro amici, compagni di nazionale, che poi te li ritrovi in nazionale ed è meglio vincere… Ma è diverso, ti conoscono di più, poi siamo cresciuti guardando il campionato italiano…”
Come Dino Meneghin molto prima di te, non sei un giocatore che si giudica dalle statistiche ma dalle vittorie di squadra. Come si diventa un giocatore così? È un fatto istintivo?
“Per quanto mi riguarda ho avuto due insegnamenti che mi hanno aiutato tanto nella mia carriera. Il primo, mi ha aiutato tantissimo in un periodo difficile della mia carriera, è cerca di fare le cose che ti permettono di stare in campo. Se segni 20 punti tutte le partite è ovvio che giochi, ma non è mai stato il mio caso. Quindi ho imparato, guardando, studiando gli avversari, quello che potevo fare per stare in campo. I rimbalzi li ho sempre presi anche a livello giovanile; difendere è qualcosa che ho imparato, lavorando tanto, poi i passaggi. Mi piace guardare la pallacanestro quindi ho studiato le situazioni. Ho avuto allenatori come Trinchieri e Obradovic che mi hanno aiutato a capire come leggere le partite. L’altra – e ne sono convinto – è che, se vinci di squadra, tutti ne giovano. Soprattutto ad alto livello, se sei un vincente o qualcuno che aiuta la squadra a vincere, alla fine ti torna indietro. Se una squadra ha ambizioni di alto livello, chi permette di vincere viene gratificato. Non è solo una questione economica, ma di soddisfazione. Si dice che i trofei si caricano di polvere e quelle che contano solo le emozioni. Sono d’accordo, ma non ho problemi a spolverare i trofei. Se questo serve… Spendiamo tanta fatica, impegno, emozioni, che vuoi vincere. Non è l’unica cosa che conta ma è una delle più importanti”.
Giocando come Melli però non si vincono i trofei di MVP, come è successo nel 2022 e nel 2023.
“Non mi pesa perché ho visto due compagni di squadra che si meritavano il trofeo e che ci tenevano per motivi diversi. Shavon per i problemi che aveva avuto, tornare, e giocare la finale che ha giocato, è stato bello. Gigi, anche se non l’aveva detto a nessuno, aveva già deciso di smettere e voleva farlo alla grande. E poi se lo meritava per quanto si è sacrificato nel corso della sua carriera. Ero contento per loro. Poi ovviamente per quanto io sia orientato sulla squadra e l’obiettivo di squadra è prioritario, e mi pare di dimostrarlo in campo a sufficienze, se poi ti danno l’MVP non è che faccia schifo o lo restituisci. Ma per me contava lo scudetto. Avessi vinto anche l’MVP meglio, ma contava lo scudetto. Anche perché mi pare che l’MVP si dia sempre a chi vince Ricordo forse una finale di Coppa Italia Roma-Napoli in cui fu MVP David Hawkins che aveva perso, ma è stata un’eccezione. Quindi prima vinci e poi vediamo chi è l’MVP”.
I due anni di NBA come agonista ti hanno lasciato dentro un senso di incompiutezza?
“Tanta. Più il secondo anno che il primo. Non giocando mai ti rimane dentro questa voglia di agonismo che non riesci a esprimere, per quanto ti puoi allenare. In Europa forse esageriamo perché ogni partita è vissuta come da vincere ad ogni costo, mentre nella NBA è quasi l’opposto. Questo pathos, questo vissuto quotidiano mi mancava. Ci sono cose positive nel vivere la stagione in quel modo, ma quello che mi mancava era giocare. Se avessi giocato, il mio spirito competitivo avrei trovato il modo di esprimerlo”.
Quanto è stato diverso tornare a Milano da uomo maturo, esperto, giocatore affermato?
“Ho ritrovato soprattutto in città punti di riferimento che avevo avuto nei miei primi cinque anni. È una sensazione diversa. Sono contento di essere tornato, non me lo sarei aspettato, non si possono prevedere certe cose, il futuro, ma non l’avevo messo in conto e sono contento che sia successo”.
Sei il Capitano: è una carica onorifica o avverti un senso di responsabilità superiore?
“Non so se sia più importante a Milano, non voglio sminuire nessuno. Per quanto mi riguarda mi dà un senso di responsabilità sia nei confronti di me stesso, per come mi devo comportare io sia nei confronti dei miei compagni, della società, dei tifosi. Cerco di metterci la faccia, per quanto posso, di esprimermi, di fare da collante sia all’interno dello spogliatoio che verso l’allenatore, la società. Se c’è qualcosa che ritengo sensato me ne faccio ambasciatore, cerco di fare da filtro. Per me è un grandissimo onore. Significa anche che sto invecchiando. Però penso sia una cosa bella di cui spero di essere degno”.
Non hai mai beneficiato del turnover, perché in Germania e Turchia eri troppo importante, qui oltre che importante sei anche italiano e poi vai in Nazionale. Non ti fermi mai.
“A me piace giocare, poi è ovvio che ci sono partite più belle e altre più brutte, in Germania, Turchia e Italia. Altre che non vedi l’ora di giocare e altre che le devi giocare. Ci sono momenti della stagione in cui giocare è più difficile e più semplice. Ma ho la fortuna di sapermi gestire fuori del campo, grazie alla mia famiglia, riesco a recuperare. Poi è innegabile che in alcuni momenti sia tutto più difficile. Ma se l’allenatore, la squadra pensano di non poter fare a meno di me, come era in Germania e Turchia, come è qui aldilà del passaporto, penso sia un buon segno. Preferisco così piuttosto che mi dicano stai pure fuori”.
Ora che stai accumulando questi record oltre alla soddisfazione cominci a sentirti verso quella fase della carriera in cui si inizia a pensare al futuro?
“No, non ci penso, poi vorrei giocare almeno fino al 2028, quindi ho un altro ciclo olimpico dopo quest’anno. Ne ho parlato anche con Gigi: l’importante è rimanere ad alto livello, fare le cose bene, essere presentabili. Penso di esserlo ancora. L’unica cosa è che, quando mi hanno consegnato il primo pallone per un record, forse era quello dei rimbalzi, non ho scritto sopra per cosa fosse. Invece devo farlo perché cominciano ad essere tanti. Non saranno mai quanti ne ha Kyle Hines, nella sua cantina o magazzino, ma devo iniziare a scrivere sopra per cosa sono altrimenti mi confondo”.
Ma un record come quello delle presenze è qualcosa che forse va oltre, perché puoi dire che lì non ci era arrivato davvero nessuno prima di te.
“Sì, è bello, ma non me ne capacito fino in fondo e non voglio pensarci più di tanto. Quello che ho intenzione di fare è riflettere su quello che ho fatto, e spero di fare ancora tante cose, quando mi sarò ritirato, spero il più tardi possibile. Sono contento che succedano queste cose, penso sia giusto ricordarsi quello che è stato e si è fatto, però ho ancora tantissima strada da fare”.
Però il record di un club lo puoi battere solo se ci rimani tanti anni e per farlo devi essere apprezzato.
“Questo sì: da ragazzino seguivo molto il calcio e ho sempre apprezzato i giocatori come Javier Zanetti, Alessandro Del Piero, Francesco Totti, o nel basket Dirk Nowitzki a Dallas, le bandiere. Io non credo di essere una bandiera, ma essere un pezzo importante nella storia di un club, anche solo per le presenze, è bello. Non è quello che sogni da bambino, non sono questi i sogni che fai, ma diventando grande ti rendi conto di essere stato una presenza importante, di un club importante. Non tutti riescono farlo, io ci sono riuscito”.