Protagonista nell'ultimo periodo positivo della UNAHOTELS Reggio Emilia - appena qualificatasi agli LBA Playoff UnipolSai 2024 -, Tarik Black si è raccontato nella rubrica LBA "5 domande a..." tra presente, passato e uno sguardo in particolare sul giovane pariruolo in squadra.
Vittoria fondamentale contro Napoli nel weekend e qualificazione alla post-season in cassaforte. Come vi sentite tu e la squadra? Siete pronti per i play-off?
Ci si sente bene ad aver conquistato quella vittoria. Penso sia stato incoraggiante essere riusciti a portarla a casa lo stesso nonostante l'assenza di Jamar Smith, una delle pedine fondamentali di questa nostra ascesa. Battere una squadra come Napoli non è mai facile: sono stati quelli che ci hanno eliminato in semifinale di Coppa Italia e sono arrivati poi ad alzare il trofeo alla fine della competizione; un gruppo ricco di giocatori talentuosi che non permettono mai di poterti distrarre, perciò essere riusciti a vincere raddoppia la soddisfazione. Abbiamo fatto “click” nel momento giusto, abbiamo ottenuto le vittorie più importanti nel momento giusto e questo ci ha incoraggiati; le sconfitte ci hanno dato modo di imparare a rialzarci, capire dove stavamo sbagliando e siamo una squadra diversa rispetto a quella di quattro o cinque settimane fa per esempio. Io sono riuscito ad adattarmi piano piano, all'inizio dovevo capire il sistema di gioco, ma una volta compreso e amalgamato al suo interno tutto è stato più facile per me e per l'intera squadra. Siamo pronti per affrontare qualsiasi avversaria ai play-off, siamo un gruppo costruito per questo e giocheremo come abbiamo sempre fatto fin ora.
Sei arrivato a Reggio Emilia un paio di mesi fa, ma sei sembrato subito a tuo agio con lo stile di gioco della squadra. Che tipo di sensazioni ti ha dato la città quando sei atterrato e quale tipo di legame si è venuto a creare tra te e coach Priftis?
Mi sento davvero molto a mio agio in questa città. Da padre di famiglia la prima cosa a cui ho dato importanza è portare la mia famiglia in un contesto sicuro e accogliente, la pallacanestro quando hai una moglie e tre figli a cui badare passa decisamente in secondo piano. Reggio Emilia ha delle ottime scuole, è un posto orientato sulla comunità e sulla collettività, è la città giusta dove vivere con dei bambini piccoli e una volta che ho capito questo mi è stato più facile concentrarmi anche sulla pallacanestro. Per quanto riguarda coach Priftis posso dire che è un allenatore meticoloso e con tantissima esperienza; è difficile trovare una persona che ami questo sport come lui, ma soprattutto sa come metterti a tuo agio fin dal primo incontro. Ci siamo sentiti per telefono prima di farmi venire qui, mi ha spiegato quali erano i suoi piani per me e come avrei potuto dare una mano alla squadra inserendomi in contesti differenti; mi ha spiegato tutto quanto per filo e per segno, questa non è una cosa che fanno tutti gli allenatori. Arrivato in questo momento della mia carriera so che le squadre mi chiamano perché sono un pezzo mancante, sono quel giocatore che fa le cose che richiede il coach non sono uno che stravolge i piani o che può cambiare radicalmente l'andamento della squadra. Tu mi dici quello che devo fare e io lo faccio. Le prime due/tre partite sono stato ovviamente più complicate perché dovevo capire bene quale tipo di ruolo ritagliarmi e come poter essere d'aiuto ai miei compagni, ma dopo è andata tutta in discesa.
In squadra hai un giovane ragazzo che sta disputando una grandissima stagione, parliamo di Mouhamed Faye. Da veterano e da compagno di squadra come giudichi il suo stile e dove pensi possa arrivare dopo essersi dichiarato al prossimo Draft NBA?
Penso che Momo abbia tantissime chance di avere una carriera fruttuosa nella pallacanestro. Arrivato a questo punto della mia carriera mi rendo conto che il posto in cui andrai a giocare e le circostanze in cui ti troverai hanno molta più importanza di qualsiasi altro fattore. Puoi andare in NBA e non avere la minima chance di giocare un minuto, poi venire qui in Europa e diventare magari il più forte di sempre. La mia speranza per lui è che venga scelto e finisca in un contesto che gli permetta innanzitutto di crescere e di imparare come viversi quel tipo di esperienza; l'opportunità migliore che gli possa capitare è quella di andare dove ragazzi come lui vengono presi e costruiti nel modo giusto, un posto dove gli viene data l'opportunità di crescere senza alcuna fretta e che non venga trattato solo come merce di scambio per intenderci. Quando guardo Momo giocare – proprio perché stiamo parlando di Draft e di prospetti – mi viene in mente un giovanissimo Clint Capela: siamo stati nella stessa classe Draft nel 2014, poi io non sono stato scelto mentre lui è stato chiamato con la numero 25 dagli Houston Rockets; entrambi abbiamo fatto il workout con i Denver Nuggets e mi ricordo come lui fosse uno di quei centri ancora tecnicamente grezzi, ma con un enorme potenziale davanti. Ecco, Momo mi ricorda proprio lui quando aveva la sua età e Clint anno dopo anno è riuscito a diventare uno dei migliori centri della NBA; li vedo molto simili, forse Capela è leggermente più alto, ma i loro corpi sono molto simili e certamente quello di Clint adesso è più strutturato e muscoloso, però è il frutto del lavoro di anni, per questo motivo penso che anche Momo possa arrivare su quella strada e avere lo stesso sviluppo avuto da Capela. Quello che mi dà la certezza su Momo è la sua voglia di imparare, la sua etica del lavoro, la serietà con cui affronta ogni singolo impegno e penso potrà avere davvero una grande carriera se dovesse entrare in NBA; tuttavia, se non dovesse essere scelto o non dovesse mai giocarci, non sarebbe assolutamente una cosa negativa anzi credo possa avere in egual modo una carriera prolifica qui in Europa, solidificando il suo status come uno dei migliori centri di questo continente. So che spesso viene vista come una cosa negativa non andare in NBA e passare l'intera carriera qui in Europa, ma io penso a quanti giocatori fenomenali non hanno voluto andare negli Stati Uniti o magari non hanno trovato la loro dimensione laggiù, diventando però qui in Europa delle leggende e sto pensando a Vassilis Spanoulis come esempio.
Hai avuto esperienze in giro per l'Europa e giocato oltre duecento partite in NBA. Qual è stato il tuo modo di adattarti alla pallacanestro europea e alle richieste dei coach? Hai ricevuto qualche insegnamento particolare da veterani o dalle superstar presenti nella Lega americana?
Il basket come ogni altra cosa è una questione di sapersi adattare e di quanto tempo hai per farlo. Puoi essere un veterano con oltre dieci anni di esperienza o un 'rookie' e la sostanza non cambia: più tempo hai per adattarti, per conoscere la disciplina e il contesto, più facile sarà crearsi la propria identità; una volta creata la propria identità, ti verrà lasciata molta più libertà di agire e di costruirti il proprio futuro. Una volta che sono arrivato qui in Europa, il mio obiettivo è stato quello di solidificare il mio curriculum come giocatore capace di adattarsi subito ad una pallacanestro europea, quindi diversa da quella statunitense; detto ciò, il passo successivo è stato proprio quello di lasciare che la squadra e il coach mi lasciassero giocare, perché sapevano che sarei stato in grado di fare ciò che avevo imparato. Quando ero giovane ho avuto modo di carpire tanti insegnamenti dai vari veterani con cui ho condiviso il parquet, non solo a livello di basket giocato ma anche di vita vissuta. È folle pensarci, ma chi vive lo spogliatoio sa che quei ragazzi con cui lo condividi sono la tua famiglia e me ne rendo conto anche adesso che ho una moglie e tre figli. Quando sei un giocatore professionista hai una agenda così fitta di impegni tra allenamenti e partite che la tua squadra diventa una famiglia a tutti gli effetti, perché passi più tempo con loro che a casa con i bambini. Allo stesso modo quando sei più piccolo e vivi determinate situazioni o cresci in un determinato contesto, tutto questo ti insegna poi a vivere con un gruppo di persone con cui giochi, viaggi e passi la maggior parte del tuo tempo durante l'anno. Ho ricevuto tanti insegnamenti che mi sono ritornati utili successivamente quando ho messo piede in campo. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti sono quelli che mi hanno fatto diventare un uomo, perché ho iniziato lì la mia carriera da professionista con i primi anni in NBA; ciò che ho compreso a livello di pallacanestro è tutto merito delle persone con cui ho giocato in quelle stagioni e non potrei essere più grato di così.